Gli Artisti |
Iniziamo queste schede con un omaggio ad Anchise Picchi, grande vecchio della pittura italiana, che dopo aver spaziato in gran parte del '900 ha invaso anche questo secolo confrontandosi con la tecnologia dell'arte digitale. A questo ammirevole pennello la rivista ha dedicato due copertine, un articolo del Direttore e vari inserti critici che qui vi proponiamo integralmente. |
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ANCHISE PICCHI: IL PITTORE DEL POSSIBILE I punti di riferimento nell'arte di Anchise Picchi sono vari e molteplici. Dalla presentazione di Luigi Servolini in occasione dell'Antologica di Palazzo Strozzi nel '78 a Firenze Autodidatta in pittura e pittore prolifico, Anchise Picchi, ricercando con passione ed insistenza i mezzi più idonei alle ne-cessità espressive della sua arte, ha realizzato, in ordine, la copiosa produzione di tre periodi. Distinguiamoli: il primo di una pittura tradizionale realistica, postmacchiaiola con figure, paesaggi e scene agresti ed una serie di grigi piovosi; il secondo: la sua pittura, che consiste tecnicamente in una combinazione di mezzi espressivi presenta una maggiore forza chiaroscurale e cromatica, un'intensità tonale più cupa e di ampio respiro mentre sono ben evidenziate le centralità visuali: oggetti, piante, fiori, frutta in primo piano sotto vivida illuminazione e con fondi ombrosi e scuri montagnosi o marini o paesani... ove rafforzata appare l'evidenza plastica delle cose... Il terzo, più soffice nella pennellata ma di stesura ruvida e grumosa... che appare più velata e sfaldantesi... Anchise Picchi ha sempre prediletto, per vocazione e ispirazione naturale, di essere il pittore-cantore della campagna ove ha sempre vissuto, ed a cui ha consacrato l'arte sua fresca e originale, la vita. Luigi Servolini Roma, marzo 1978 Dall' intervista telematica di Stefano Colonna - Direttore del BTA - Università di Roma ...A quale artista del passato si sente legato in modo particolare? E' stato suo nipote Lido a spingerla sulla strada della computer grafica? TRATTO DA "LA BALLATA" N. 2, 2000
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ANCHISE PICCHI: UN MAESTRO DEL '900 (. . .) Ecco che in La Chiesa di Corea a Livorno (1979) si afferma in termini definitivi quella fisionomia di artista intento a cimentarsi col vero, sempre però con il supporto di un'inesauribile capacità visionaria che si dipana secondo percorsi senti-mentali del tutto autonomi, visto che egli si attenta in quest' opera a cogliere il dramma di un'esistenza votata al travaglio e alle difficoltà, come si evince da quella piccola figura femminile trascinata dalla bufera, insieme con il suo bambino, di fronte alla chiesa cittadina - una delle solite figure 'senza volto' dipinte cosi frequentemente dall'artista sull'onda del ricordo dei manichini di Annigoni - che nella positura di schiena nega ogni possibilità di colloquio con l'osservatore, assurgendo a simbolo di un'umanità travolta da un destino di solitudine, dove tuttavia si erge il ba-luardo di una presenza ineludibile, quello della fede divina che si sprigiona dal profilo monumentale della chiesa investita da una luce talmente prorompente da vincere l'oscurità dell'aria tempestosa: un monito dell' artista a non smarrire la speranza di una dimensione ultraterrena, ma anche e soprattutto, in termini pittorici, un'estrema professione di fede nei confronti della primari età della luce nella genesi dell' opera d'arte. (...) Picchi si pone rispettosamente davanti al dramma esistenziale dei suoi personaggi, cosicché, oltre ad astenersi dalla rappresentazione frontale delle figure tratteggiate nelle sue vedute, anche laddove s'impegna nell'ardua impresa del ritratto preferisce avvalersi quasi sempre dello schermo di uno strumento senz'altro più obbiettivo del suo sguardo, ovvero la fotografia: è il caso di "Ritratto fem-minile" ("Il medaglione" -1964), realizzato addirittura sulla scorta di un dagherrotipo; e di quest'ultimo l'immagine femminile trattiene tutto il fascino della lontananza, anche se il nitore disegna-tivo con cui vengono caratterizzati sia il volto che gli accessori giunge a restituire perfettamente il fascino tutto attuale del-la protagonista del ritratto. .. (Da: "Anchise Picchi - Un percorso nel Novecento da Natali a Annigoni" - di Francesca Cagianelli)
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L'abilità disegnativa e luministica è qui ben rappresentata, restituendo in pieno il senso del tempo che si ritrova e rivive nel-la forte, volumetrica e caratterizzata fisicità degli oggetti, quasi a sottolinearne l'uso e a ricordarne la storia. Lido Pacciardi
Due domande al maestro Picchi (Da un 'intervista rilasciata al dott. Stefano Colonna, direttore del BTA) Oggi l'Arte sembra non avere più spazio nei mezzi di comunicazione di massa. Ma la realtà è forse differente: qual è il suo pensiero a proposito? La potenza e la flessibilità dei mezzi di comunicazione di massa potrebbero renderli strumenti efficacissimi per la diffusione della cultura e dell' Arte, strumenti, se non altro, funzionali al mantenimento e al rispetto di un patrimonio di storia e di cultura unico al mondo. Purtroppo l'uso che se ne fa è sotto gli occhi di tutti. Rare e scadenti sono le eccezioni. Credo che siano scelte di carattere politico. Abbiamo una storia unica e irripetibile, il maggiore e più valido patrimonio storico-artistico del globo, e ne sanno più gli stranieri di noi. Nelle nostre città respiriamo arte in continuazione, la incontriamo ad- ogni angolo ed in ogni via. Solo pochi se ne accorgono. I più non ne sanno neppur misurare, all'ingrosso, il valore. Gli splendidi marmi del Duomo di Pisa, a due passi da casa mia, sono coperti di scritte d'ogni genere! E' una responsabilità a carattere essenzialmente politico. Spesso a carattere locale. Il pericolo è che i mezzi di informazione finiscano per disinteressarsi completamente di tutto ciò che non sia finalizzato al "con sumismo di massa", al profitto e all'immediato tornaconto. Penso che, invece, un uso più intelligente ed accorto dei mezzi di comunicazione verso un' educazione più diffusa e più profonda all' Arte, sarebbe un sicuro investimento per una società più adulta, più libera, più consapevole.
Quale pensa che sia il fine ultimo dell'Arte? Come io la vivo, la creazione artistica è quasi un bisogno fisiologico. Per l'artista essa non ha principio e scopo. E' solo pura necessità, appagamento, spesso ansia. Ma l'Arte, intesa in senso più vasto, non personalistico, è produttrice di civiltà, in un processo di osmosi che le trova strettamente avvinte. Il compimento di un' opera è, per l'artefice, il momento del completamento, dell' acquetamento della pulsione, della realizzazione materiale di un progetto, di un'idea; anche della fine di uno stato d'ansia, se vogliamo. Da quel momento l'opera comincia a vivere di vita propria. L'artista quasi la disconosce, la rigetta, ne rimane esterno. Ora essa è patrimonio di tutti, è testimonianza, è parte di ognuno che, godendola, vi si conosce. Quale il suo fine ultimo? E' una domanda impossibile e fondamentale. Forse quello di sconfiggere la mera razionalità? Per penetrare il mondo del sogno e della poesia? Non lo sappiamo né lo sapremo mai. Sappiamo solo che un popolo senz'arte è senza storia; è un popolo che non è mai nato, né credo sia mai esistito veramente. L'arte nasce dal mito. E' mito essa stessa. Parlandoci da sempre, dagli strati meno noti dell' animo umano, come dalle oscure profondità delle grotte preistoriche dipinte, essa è lì, apparentemente senza un preciso scopo (ma qual'è, se c'è addirittura, l'utilità dell'universo?), a rendere più libera la nostra debole condizione di umani. Non saprei cos'altro dire e non so se ho risposto alla sua domanda. TRATTO DA "LA BALLATA" N. 1 - 2002 |
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