MARCELLO LANDI

"Fantapoesie in ciclostile"

Roberto Pagan, edito da Stampert, Roma

Roberto Pagan.

Prefazione a M. Landi, Fantapoesie in ciclostile, Stampart, Roma, 1984.

 

Con queste Fantapoesie Landi riprende e consapevolmente dilata e approfondisce un discorso già aperto tempo fa con La prova dei pianeti, Trevi, Roma, 1968. E non a caso di quella raccolta ripropone qui alcuni testi (segnatamente il primo e l'ultimo) che sono come le architravi di questo nuovo edificio, che egli costruisce, in un suo procedere ciclico, allargando il varco verso tragitti che la sua fantasia eminentemente visionaria ha intuito possibili e quanto mai attuali in questa nostra dimensione perplessa tra il naufragio degli antichi universi e gli improbabili paradisi di una tecnologia che, a volta a volta, ci affascina e ci tradisce. Una strada esaltante quanto ardua, davvero un "folle volo" (ma Landi sa che le grandi scoperte sono delle creature della Paura, dei grandi Folli, appunto), capace di aprire prospettive inedite a patto di una trasgressione dei significanti tanto ardita da far giungere i nostri messaggi via dalla Terra a creature che forse esistono fraterne su candidi tronchi di galassie; che sia in grado, insomma, di inventare, di volta in volta, modi non banali per aggredire questa realtà onirica con la forza di un atto liberatorio.
L'equazione di fondo che il nostro autore si è posta sembra essere in effetti lineare: se è vero, come è vero, che tutta la poesia moderna, almeno a partire da Baudelaire, è andata scandagliando i percorsi che ci portano a un mondo autre, perché non collocare questa realtà, che continuamente ci delude e continuamente ci tenta, non più nei cieli di Platone bensì in quelli che sembrano oggi (ma sono?) più a portata di mano?: i cieli di Gagarin, per intenderci, o di quella Galina poetessa che Landi apostrofa qui, in un componimento pur fondamentale nella sua oracolare enigmaticità:…Tu / Galina che ne dici? So / che lassù hai scritto versi / per chiudere lo spazio nel bicchiere…
E' un'intuizione così limpida che stupisce come altri prima di lui non ne siano stati adeguatamente sollecitati: dico i poeti, i quali sembrano aver lasciato un simile immenso spazio solo alle navicelle dei cultori di altre infinite specie di letteratura fantasy o di consimili trasposizioni filmiche. Perché, ch'io sappia, a parte qualche occasionale incursione in questi cieli, nessuno come Landi finora (almeno in Italia, non so altrove) con tale impegno e tale plausibilità di risultati si è messo per questo itinerario. Un itinerario - giova avvertire - che dischiude rivoli infiniti e attese ora stimolanti ora fatalmente deluse, com'è sempre il viaggio di chi si porta dietro, comunque, il nostro antico Adamo, le ferite di questa aiola che ci fa tanto feroci: dalle vertiginose ascese di Dante a quelle tanto più disincantate di Astolfo sulla Luna (Altri fiumi, altri laghi, altre montagne / sono lassù, che non son qui da noi…), là dove il nostro mondo ci riappare come in negativo, come in una prospettiva capovolta, ma insomma inguaribilmente nostro.
E qui, in termini di inconsueta tensione drammatica, che ha riscontro solo nella voce di alcuni mistici del medioevo, il tema moderno della "morte di Dio", speculare del resto a quello del trapezio angelico degli ideali, nella sublimante ricerca della innocenza perduta: un trapezio, lo dicevamo prima, che si spenzola tra abissi inestricabili, spesso sospinto dalla molla nera degli incubi, ora verso l'ossessione macabra e angosciante:

uomini alti, pallidi di luna
buttavano nell'acqua…,

ora verso l'approdo del ditirambo grottesco e apocalittico:

Ci fu una scossa, Nostradamus II rise,
la torre Eiffel è stata trovata
a Londra...

 

Resta da dire della prova più ardua e impegnativa cui Landi si sottopone, quella della forma, che, sia pure con risultati diseguali, non esita a superare di slancio: un linguaggio a volta a volta iridescente e convulso, irto di soprassalti, di squarci lirici come di movenze meccaniche e seriali, proprie di un gergo parascientifico, spesso autoironico, che conosce sì, tutte le più scaltrite e sofisticate risorse della sperimentazione dei segni, ma che pure, a noi sembra, le brucia e le sublima, per il fatto semplicissimo che non muove da precostituiti universi intellettualistici, ma piuttosto da una febbre interiore che si scarica - nel suo ritmo allucinatorio - con le intermittenze elettriche e con la folgorante violenza della tempesta: insomma non un temporale da salotto, l'artificio in provetta per asfittiche accademie, ma proprio una procella en plein air, che ha ancora la forza della natura primigenia. Quella forza - lo diceva già Gaetano Salveti nella prefazione a La prova dei pianeti - per cui Landi, proponendo un suo nucleo poetico…ha superato, anche in termini di ricerca, la condizione meramente letteraria di non poca nostra poesia contemporanea.

 

Roberto Pagan

La musica
chiama l'ottava nota, si è persa
nel pianto del morente, scorre
in quella effìgie, i poeti son qui,
guardano il viso di quel nuovo chiarore
che rompe ogni traccia, lo chiamano
i poeti
con sillabe scarne e interrotte,
lo chiamano i poeti
per stringere amicizia
I poeti non sono più
alunni
della luna che fu.

 

Ora, il grande iter era vissuto
ed egli, ora, non vide
che smeraldi turchini
sui grandi dischi dei prati
e bianche creature...
Vide foglie aperte come mani
da alberi altissimi,
allora fra gli alberi mosse
e raccolse un panno sull'erba
e vide altre creature
con seni rivolti in alto
che lo guardavano ridendo
" E' venuto stamani " esclamò qualcuna
" Sì, aveva la solita aureola dei morti
ma diversa - altra aggiunse - certo
ed emise un canto che richiamò
versi sprecati del cinquecento.

Non avevano vesti
nell'aria ferma
e non veniva sera
anche se ora la luna guardava
come una rossa arancia.
Ma Zeno era stanco / chiuse gli occhi
disteso tra i fiori, non lo destò
nessuno. Soltanto all'alba
gli uccelli fiorivano ed una
rosea fanciulla
dai capelli fluenti
lo baciò sulla bocca verso
quel mare
fra le vigne fulgenti
dove il sole si alza/va.

Uomini alti, pallidi di luna
pensavano a sabbie lontane,
poi,
lo sguardo fisso, le braccia ignude
buttarono nell'acqua teste di pietra,
animali di gesso, cani grandi,
buttarono manti cinesi
con perle, giù ai gabbiani
nel fondo squallido del fiume;
buttavano la gente che passava,
a chi urlava, altri pestarono,
alle donne spinsero il fallo
tra deflagranti natiche
nel fondo.
Poi si fermarono,
bevvero chissà dalle borracce
messe a tracolla, "
pensavano a cieli, a terre lontane
pensavano alle rondini
che risicano il mare.

(nota : l'avere scelto, da questo volume, solo alcuni brani e non altri, non esprime un giudizio critico ma risponde a mere esigenze di spazio)

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