Recensioni Marzo 2010

 

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Vera Franci Riggio

Il grido del vincitore e altre poesie

Edizioni Feeria Comunità di San Leolino, 2009

 

È la religiosità di una natura sana, figlia del bello, nata dalla voglia di credere ancora nel futuro, negli uomini e in Dio, un Dio però umanizzato, reso partecipe delle nostre debolezze, fratello dei sofferenti, ma anche figlio delle madri umanamente colte nelle perdite, un Cristo vicino alle nostre debolezze, consapevole, lui come noi, di un’umanità zoppicante cui si deve rispetto sia pure nell’infelicità, quanto si coglie alla prima lettura nella poesia di Vera Franci Riggio.Una poesia ormai matura, senza esitazioni, quasi l’avere affrontato un cammino lungo avesse fortificato la sua essenza di donna, di madre, di cristiana. Ma è soprattutto nella rivisitazione del passato, nell’accostarsi alle sue perdite, nel constatare le sue umane percorrenze che Vera beve il suo calice, non amaro però, ma reso accettabile dal suo giornaliero avvicinamento al percorso di qualsiasi altro essere umano sul cammino di Emmaus. A questo punto Vera acquista forza, padronanza dei sentimenti e dimentica la povertà della perdita, sia che si tratti di un essere amato o di un animale domestico, perché nella nostra non c’è distinzione, l’essere in quanto creato è scintilla divina, nato per volontà di un padre e cresciuto all’ombra di un meraviglioso mondo naturale dove lei come noi vive. Nell’accostarsi al Vangelo, nel ripercorrere le tappe del Cristo non già divinizzato, Vera ripercorre le sue e le nostre e nel grido del vincitore, riconosce la sua umanità ferita e consolata.Religiosità diffusa, allora, spalmata sulle malinconiche note del passato, mentre abbracciata al presente gioca la partita del futuro cui guarda con rassegnazione stupefatta.Vera è uscita ancora una volta allo scoperto dichiarando apertamente la sua padronanza letteraria senza più tergiversioni, problematiche da risolvere o ricerca di preziosità letterarie e si racconta in maniera tranquilla cimentandosi, quale la sua natura, in percorsi sempre più difficili, senza il grido del vincitore, ma la dimessa rassegnazione che la fa “transitare non importa per quale strada, ma insieme a quei tanti che come lucciole a sera si scambiano messaggi”. Così nella ricostruzione fedele e, se vogliamo, romantica del Vangelo fatto dall’uomo per l’uomo, assaporato fino nell’intus, esce nitida l’immagine dell’uomo Dio, il cui grido “è il nuovo ultimo segno”. Comunque non già sterile rilettura, ma meditata e intima rivisitazione in cui legate le vele di uno sterile bigottismo, la poetessa innalza il vessillo leggero della fede cucito con la stoffa della speranza.

Giuliana Matthieu

 

La raccolta di poesie antiche e moderne non italiane scelte e tradotte da Mario Testa trova una sua ragione nel “come”, ferma restando la fedeltà del traduttore alla lingua d’origine, il lettore assapori la resa poetica della versione. Argomento sottile e complicato, tuttavia non eluso da Testa e dalla interessante e chiara prefazione di Maria Federica, tale che il lettore non potrà non riconoscere colta, specialistica, accorata anche nel difendere la ricchezza spirituale elargita dai libri in un tempo dominato dalla civiltà tecnologica. Circa le valide traduzioni del Testa, qualora si desiderasse confrontarle con altre versioni in italiano accompagnate all’originale in lingua devo dire che non ho potuto evitare l’antico ricordo dell’epigramma “Gran traduttor dei traduttor d’Omero” sparato in un tempo lontano a Vincenzo Monti (1754-1828) colpevole di aver tradotto l’Iliade dal latino. Ma per quanto riflette il nostro scrittore, che ha lasciato carta bianca ai lettori evitando l’uso di accompagnare le traduzioni con i testi in lingua, non mi sono esonerato dal confrontare un sufficiente numero delle sue versioni con altre corrispettive disponibili sia pure dislocate in tempi diversi. Così, anche da poeta che sono, ritengo che Testa, detta “quasi la stessa cosa”, è riuscito a gratificarci mediante un valore aggiunto “creativo” consistente nel surrogare fraseologie fattesi un po’ antiquate con altre scorrevoli e moderne adeguate al tempo presente dei lettori sensibili.

Brunello Mannini

Mario Testa

Poesia antica e moderna

Rolando Editore

 

Alfredo Gambardella

Le colonie penali nell’Arcipelago Toscano tra l’Ottocento e il Novecento

Ibiskos Ulivieri

Con una bella quanto significante copertina raffigurante il cimitero dei detenuti di Pianosa con scritto sulle due colonne d’ingresso, bianco su nero, in alto: “Eravamo come voi siete - Sarete come noi siamo” e sotto, nero su bianco: “Qui ha fine la giustizia degli uomini e incomincia la giustizia di Dio”, l’Ibiskos Ulivieri ha fatto centro, perché a meditare sulla società degli umani quanto a carceri e colonie penali già basterebbero le sopra menzionate scritte. Ma Pianosa, avanti vi nascesse una colonia penale agricola (1858) aveva attirato varie iniziative private per uno sviluppo economico dell’isola, argomento trattato dal dr. Massimo Sanacore, attualmente dirigente dell’Archivio di Stato di Livorno (La privatizzazione dell’Isola di Pianosa nella prima impresa capitalistica agraria di Livorno (Studi Livornesi vol.VI-1991 Bastogi ed. Livorno). Venendo ora alla pubblicazione del dr. Alfredo Gambardella (laureato in giurisprudenza che esprime l’attività nel volontariato presso la Casa Circondariale “La Dogana di Prato”) si può dire trattarsi di una lettura oltremodo interessante, non solo per la particolarità dell’argomento o perché riguarda la Toscana, ma soprattutto per quel sapore di narrazione colta-lineare che Gambardella è riuscito a imprimere, prodigo di valenze utili alla tracimazione in aspetti altri, fra i tanti quelli dovuti a una globalizzazione che non demorde e allo stesso tempo mette a nudo la plasticità della storia umana.            Brunello Mannini

 

 

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