Recensioni marzo 2013

 

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Antida Gazzola

La collina del labirinto

Ed.SanLorenzo2012.Lugano

Un po’ tutta uguale la narrativa di oggi, più o meno come le presenze femminili che invadono gli schermi televisivi, tutte ugualmente belle e vuote , capelli biondi e lisci, visi angelicati, ma la sostanza non c’è. Ebbene stessa sorte per la prosa, la punta di originalità non esiste più. Una scrittura piana, per carità anche scorrevole, talvolta elegante, indubbiamente corretta, ma inefficace. Ebbene la prosa artistica di Antida Gazzola della cui preparazione culturale non si discute, morde dentro e scuote anche la più impermeabile delle menti. Diversa, scattante, rigorosamente intellegibile esula dai soliti codici narrativi e si allarga come un grande mantello pagina dopo pagina a coprire la nostra sete di bello. Siamo lieti che la scrittrice abbia privilegiato le pagine della nostra rivista appoggiandoci le perle del suo walking about.

(Giuliana Matthieu)

 

Eccoli i sensi, già presenti nel titolo: il tatto (freddo) e l’udito (rumore) - nel libro si parlerà di desiderio di suoni -, ma il lettore ne scopre altri che si confondono persino - sudo col pensiero e penso col sudore - inoltrandosi nella lettura di questo racconto di una ragazza tossicodipendente. Diario disperato di un’azione che si svolge tra la stazione di Padova e il ricovero in ospedale. Anche l’olfatto ha un ruolo importante, è esaltato: Esplodeva la violenza degli odori in tutta la sua lussuosa sensualità (p. 40). La protagonista vuole fissare in ogni senso anche ciò che può far sanguinare gli occhi e il cuore (p. 41). In effetti, la protagonista, di cui non si sa il nome, non ancora trentenne, con lucidità scava dentro l’anima alla ricerca di se stessa, si racconta e sollecita lei stessa la conquista ripetuta di sensi, del violento sentire, del “sentire” ossessivo - ogni odore, ogni dolore, ogni sprazzo - che conduce a guardare quel cadavere che mi preme tanto vedere, conoscere e riconoscere nella svolta alla Morte, sentire quel corpo morto e gonfio e putrefatto (si tratta del corpo dell’amica Manu) o a baciare quelle labbra ormai fredde. Vedere, insomma “essere”, e c’è l’immensità delle emozioni. Basti per tutte quella riferita alla cara amica Emanuela morta:Subito, si era impadronita della mia anima sottile, avvolgendola con la sua generosa bellezza (p. 22) e, parlando di questo suo rapporto, lo definisce rito sensazionale…era come toccarsi nel più profondo (p. 23). I sensi e i sentimenti si confondono. Manuela non è l’unica figura evocata, c’è anche quella di Antonio, ventisei anni, ricordato con straziante tenerezza, morto, per qualche pasticca e un po’ di vino, abbracciato alla narratrice, vestito di un nulla sgargiante. C’è anche quella di Mirko, violento e indispensabile. Tra pensieri confusi e opachi, la stanchezza di questa creatura è data dalla lotta contro il male terribile rappresentato dalla droga, ingannevole paradiso artificiale. In un’altalena costante tra amore e odio, sedotta dalla Morte, la protagonista gioca con lei, gioca con la solitudine; svuotata del presente, vive nel ricordo del passato, convinta che la vita sia una fregatura (convincimento ripetuto più volte) anzi un problema. La narrazione è serrata, forte negli accenti, allucinata e la rievocazione della giovane donna morta, Manu, commovente:Con il suo abituale vestitino rosso che le scivolava addosso come acqua lungo i fianchi sopra le ginocchia, e i capelli sciolti color dell’oro rosso esaltavano quei grandi occhi pieni di un delirio folle ed abbagliante (p. 25). Follia corrode queste anime e questi corpi. Droga, perché? Per fuggire dalla vita, dalla sua noia, banalità, falsità, ipocrisia, condizionamenti, dalla malattia del mistero della vita, dal suo inganno.

Il freddo rosario del tempo, la fredda angoscia, il freddo rumore, la notte fredda, il soffio di freddo, il sangue si raffreddò ecc.: questa sensazione così forte che pervade il testo - il freddo scendeva sul tuo corpo e sui miei pensieri insieme - è quello della distanza, della solitudine, della morte, della mancanza di carezze con la struggente speranza che il cuore venga scoperto e che la mente, malata d’amore, guarisca.

Una metafora corre per tutto il racconto ed è quella delle ali: perse e invocate a gran voce per smaterializzarsi. Ma le ali si conquistano a prezzo di una educazione iniziatica e purificatrice, spesso lunga pericolosa. Ali per volare e vedere ogni cosa, ogni respiro e precipitare dentro la mia anima. Ali protettrici, ali segno di folle libertà.

Non è un caso che la protagonista sia una scrittrice, una poetessa per l’esattezza: scrivere allontana la morte (liquefà).

(Fausta Genziana Le Piane)

Nicola Rampin

Il fredddo rumore

Ed.Eventualmente 2010

 

Luigi Angelica

Livorno

Il porto dei porti

Matithyàh, Pontedera

Nelle immagini la luce solare del Tirreno è la costante che accende e satura i colori puri che pungono la nostra percezione visiva e magicamente rendono leggera anche la nave più imponente. Nelle fotografe il porto appare come un’immensa fabbrica a cielo aperto in cui le macchine, dalle proporzioni enormi, dalla terra si stagliano alte verso il cielo o navigano nel mare. Le immagini ci parlano di questa sfida immane lanciata dall’uomo alla natura che è combattuta e vinta ogni giorno nel conservare, protette ed efficienti, le macchine. Il linguaggio fotografico di Luigi Angelica riesce a spingersi nella ricerca di tanti punti di vista di questo Nonluogo, per definizione, che è il porto. Lo fa con un’ampia gamma estetica che, dal frammento significante o simbolico, si apre ai grandi spazi nei quali pone in relazione gli elementi di senso di questa particolarissima realtà, generando testi visivi che raccontano la quotidianità peculiare del lavoro in esso compiuto.

Direttore del Dipartimento Cultura FIAF

(Federazione Italiana Associazioni Fotografche)

 

Luigi Angelica. Toscano di nascita, terminati gli studi in chimica industriale, si trasferisce a Milano come chimico ricercatore in una grande industria chimico-farmaceutica. Frequenta una scuola serale di fotografia, prendendo passione agli aspetti della comunicazione visiva. Nel ’69 decide di scegliere la libera professione di fotografo. Frequenta scuole di specializzazione a Monaco, Basilea, Schaffausen, Zurigo e

Milano. Nel ’71, con la moglie Ingrid, sua impareggiabile collaboratrice, apre studio a Livorno, dove svolge tutt’oggi la propria attività. Insegna fotografia in scuole pubbliche, scrive di tecnica fotografica su riviste di attualità, gestisce una scuola di fotografia pratica.Con la sua fotografia di ricerca, ha ricevuto riconoscimenti e numerosi premi in concorsi nazionali ed internazionali. È socio Tau Visual Professionisti della comunicazione visiva e al congresso mondiale 2002 della fotografia di Orvieto è stato insignito della qualifica QIP e QEP (Qualifica italiana e europea di fotografo professionista). Tra i suoi lavori monografci: Dal Pediatra, Paesaggi toscani, La mia Africa, Cuba, Sguardi: volti e figure del mondo arabo, Rocce di Calafuria, Livorno Consueto e Insolito: La Costa, Livorno Consueto e Insolito: La Venezia, Livorno Il Porto dei Porti (vol. 1 e 2)Silvano Bicocchi

 

 In questo libro rivolto a numerose cronache del Settecento livornese, se come apertamente si esprime l’autore nel cinquantunesimo capitolo che chiude il testo, non aveva inteso sdegnarsi con Giuseppe Piombanti perché nella sua prima guida cittadina pubblicata del 1873 aveva affermato che il nuovo teatro livornese poi detto degli Avvalorati, alzato nel 1780 sui vuoti spazi ricavati dai demoliti magazzini detti delle mummie in quanto di queste ne facevano commercio, venti anni dopo Piombanti varava una seconda guida cittadina nel 1903 ricredendosi circa l’origine del toponimo delle mummie, scrivendo che si trattava solo di pelli animali e non più di mummie, quando ormai Mannini, conoscendo solo la prima guida e ignorando l’esistenza di una seconda, appassionato come era alle vicende delle mummificazioni naturali e no, già aveva già consumato inutili mesi e mesi dedicati alle ormai inutili ricerche di archivio fintanto che incappò nella seconda edizione della guida che comunque avrebbe dovuto conoscere. Così al momento decise di dimenticare Piombanti e buttare al macero un lavoro inutile, cosa che Mannini non fece in quanto più trascorreva il tempo e più avvertiva la necessità di riallacciarsi a quanto pareva emergere circa gli usi che praticamente si faceva dei magazzini come tali solo volgarmente detti delle mummie, fino a quando gli rimasero prove idonee che in quei magazzini veniva trasportata una varietà di merci e che il toponimo poteva risalire agli anni settanta, quindi piuttosto a ridosso della demolizione. Chiusa ormai la questione Piombanti, come in precedenza non era stato possibile trovare le necessarie prove al riguardo, Mannini ha inserito nel libro un notevole numero di flash d’epoca per merito delle relative filze e altri scritti, evitando inclusioni personali per non farne storia di convenienza. Il libro si avvale di 51 capitoli, 390 pagine e 566 note che talora possono anche integrare il testo, sempre attenendosi alle antiche carte. A sua volta ogni flash del libro propone ai lettori una notevole quantità di avvenimenti interessanti, per esempio: L’introvabile bel gabinetto di scienze naturali, Una mummia per il dottor Gentili e molte per Piombanti, Incontrando alcuni Miranda fra pelli e tabacchi ma nemmeno una mummia, Senza data un tariffario dei facchini addita le mummie, Imprevisto interludio: una mummia livornese ha 162 anni, Imbalsamati e no, Meglio imbalsamati che ammollati, Aria insalubre e allarmi sanitari, Baldovinetti e Ricci, Prima del tumulto di Santa Giulia, Prato Pisa e Pistoia, Funerali al risparmio, Il calcio al Luogo Pio, Facchini indigeni e forestieri, Federigo Parpiglioni detto Leprino, Santa Giulia 1790 e la grande paura degli Ebrei, Le prime richieste del popolo con i pareri delle autorità locali, Le altre 6 richieste, Assalti al pane, rimborsi ai fornai, Il resto delle richieste popolari, Le Stanze dei cassieri maltrattate dai poveri e la chiesa di S.Antonio evacuata dai Preti,Tutto quanto concerne il processo di Federigo Parpiglioni. Tutto interessante senza traboccare nella noia.

(Rachele Campi)

Brunello Mannini

Livorno scomparsa

Ed. Erasmo 2012

 

Arturo Molinari

Il Cireneo

Ibiskos-Ulivieri, Empoli

 Ben oltre i confini di una narrativa prettamente edonistica di compiacimento, il romanzo di Arturo Molinari alla sua prima importante apparizione editoriale al pubblico di lettori, si inserisce in un filone complesso che indossa le sfumature del giallo, si copre delle ombre lievi del noir, si traveste a volte, da sapiente paladino del romanzo storico, appoggiando talvolta un piede nel campo della ricerca filosofica e religiosa. Una struttura la sua che risponde a una mentalità ben organizzata, che si apre al mondo esterno di cui coglie ogni sfumatura e ogni impercettibile aspettativa. Molinari rappresenta il suo romanzo con il quale si identifica per quella sua talvolta maniacale voglia di sapere, lasciare poco spazio al dubbio di cui allo tesso tempo si compiace per quella sottesa, inconsapevole voglia di chiarificazione. Ma il dubbio è parte dell’uomo, forza e debolezza insieme del vivere quotidiano di cui il Molinari è parte integrante. Il Cireneo, il suo primo romanzo, esamina le tante sfaccettature della vita, di cui elenca con cura stando attento al dettaglio le infinite opportunità, le innumerevoli smagliature che tuttavia fanno parte di un tessuto organizzato. Nelle sue oltre cinquecento pagine non suddivise in capitoli per non disperdere l’idea centrale, Molinari affronta con decisione e chiarezza le tante problematiche dell’uomo che nel romanzo assume le caratteristiche e la fisionomia del vecchio Tito, di cui si narrano le imprese con la leggerezza propria dell’autore. In fondo Tito, vecchio maresciallo, petulante e discorsivo, arruffone e piacevole allo stesso tempo, è l’uomo che si propone con tutti i suoi difetti e allo stesso tempo con le sue incredibili doti di buonsenso. E l’autore con mano ferma, ben addestrata alla scrittura, certamente non digiuno di studi lessicali, comportamenti linguistici, si mette in gioco, si diverte per certi versi in questo gioco, affrontando i tanti problemi di cui si carica, andando a spasso nei sentieri della semantica, della religione, della politica, della filosofia, del mito e persino del dialetto, senza peraltro strafare, ma con il buonsenso di chi conosce i limiti e forse si vuol soltanto divertire. Molinari non vuole dare delle risposte a quesiti di vita, né tantomeno atteggiarsi a maestro, si vuole soltanto collocare fra gli altri con la tranquillità di chi ha tempo, un tempo giocato fra le mille opportunità di cui lui si fa ironico promotore: i vecchietti alla ricerca di una reliquia, le varie Desi, Elvira, Adelina, modelli, in fondo, della donna di sempre: petulante, discorsiva, simpaticamente malandrina e al contempo umanissima. Così le due parti del libro che, peraltro, non si può leggere tutto di un fiato per le innumerevoli sfaccettature e problematiche che suggerisce, si può catalogare tra i libri di autore, intendendo con questa parola il libro che, senza atteggiarsi a trattato, fa tuttavia parte di quel tipo di letteratura che rappresenta la nostra parte pensante e non già soltanto edonistica. Insomma un libro che fa pensare e mette in discussione anche le nostre poche convinzioni, suggerite e metabolizzate con i vari programmi televisivi che giocano il ruolo degli informatori. E in questo modo le due parti del libro si snodano fra le mani del lettore, con l’unica intenzione di essere assaporate, digerite e poste fra le conoscenze piccole o grandi di cui ognuno ha un bagaglio. Struttura, lessico, comportamento linguistico, costruzione sintattica, coinvolgimento e forse contaminazione di cui l’uomo dispone e cos’altro? La descrizione accurata, vivace, quasi cinematografica degli ambienti e dei personaggi che si parano davanti con semplicità, diventando parte del nostro vissuto e della nostra stessa identità. Berto, Elvira, Arturo, Adelina, il Maresciallo, per tutta la durata del tempo di lettura, vivono con il lettore diventando parte integrante del suo vissuto con cui si scambiano il ruolo.  

(Giuliana Matthieu)

 

È ancora notte. Al centro un uomo in ginocchio attende il giorno. D’improvviso un sole ancora cieco accende una fiamma opaca nell’universo e una porta prima, poi un’altra, poi un’altra ancora si aprono rivelando il giorno all’umanità, tre fasci di luce che si fondono, si sfiorano, si compenetrano, creano vita, forze vitali, moti creatori; l’uomo in ginocchio inizia a vedere, si alza, respira, vive, di nuovo o per la prima volta, sempre al centro avvolto dai tre fasci di luce, come un dio in mezzo agli angeli, come un uomo sorpreso dalla vita e insieme consapevole di essa. Un raggio di sole che penetra attraverso una trifora, in un’immagine mistica che apre la strada alla creazione, una primordiale condizione di vita sospesa fra nulla e tutto, “in magma di primordiale nascita”, “un parto d’amore, nascita di millenaria nascita”; al primo raggio ne segue un altro, che scalda la vita e la rende matura come un frutto al sole, l’umana coscienza si fa consapevole e cambia al variare del tempo, in un moto perpetuo che rigenera e restituisce, “un cuore in moto…un invisibile passo”; il terzo raggio penetra la vita e illumina la strada all’umanità, in un cammino che trascende i limiti del quotidiano, una “migrazione cadenzata a ponti, fra suolo e cielo, con lo sguardo a quel che eravamo e a quel ch’ora siamo”.

Una poesia dalla visione totale quella che ci regala Daniela Monachesi con il suo “Trittico (Ibiskos Ulivieri, 2012)”, un concept che per primo rende chiare le intenzioni di questa raccolta, un compendio universale e complesso di filosofia della creazione, dell’eterno, universale farsi del cosmo, attraverso mutazioni e cambiamenti non solo organici, ma antropologici e sociali. Fiat Lux, la prima colonna portante della raccolta è un inno alla creazione, un elogio agli elementi a cui sono dedicate cinque liriche ciascuno, che forgiano e amalgamano la vita così come la conosciamo; il secondo pilastro non può che far riferimento alla Metamorfosi, poesie di crescita, di evoluzione, un moto costruttivo e insieme distruttivo che ricrea e con forza rigenera, una conservazione della vita oltre la vita, oltre la materia, in assenza e in pura essenza. La terza colonna porta alla maturazione del cosmo, la vita è pienamente consapevole ed il fuoco sacro di Fiat Lux si smorza in una cadenzata quotidianità, tutt’altro che banale, ma che anzi, sprona l’essere umano a superare i limiti della condizione terrena, a trascendere i confini dell’esperienza sensibile verso una pienezza interiore, nell’acquisizione della consapevolezza che la vita ha una sua propria origine perenne e perpetua, nonostante tutto. Daniela Monachesi, che già ci aveva (ben) abituato con le sue precedenti raccolte “A soffi scalzi” (Ibiskos Ulivieri, 2009) e “Rocce di antichi fati” (Ibiskos Ulivieri, 2010) a una poesia mai banale e dalle metriche sempre diverse, a uno stile pulito ma ricco di evocazioni sensoriali e figurate, ci dona con questo suo ultimo lavoro (Finalista al XXX Premio Firenze), più di una semplice silloge poetica, bensì uno strumento di ricerca dell’armonia, anche e non solo grazie al sapiente uso dell’endecasillabo e di quel verso libero che ci libera e fa librare il nostro animo di lettori verso atmosfere più sottili, ci spinge a vivere in altezza, a elevarci, a sentirci compiutamente e pienamente umani.

(Filippo Baggiani)

Daniela Monachesi

Trittico

Ibiskos-Ulivieri, Empoli

 

Laura Rainieri

La Bassa piana e le Fontanelle

Ed. Tielleci

Dopo alcune pubblicazioni di versi e di narrativa, sempre seguite da un notevole successo di pubblico e di critica e, segnatamente, dopo aver fissato la propria attenzione sulla figura materna per onorarne la scomparsa con l’emozionante raccolta E serbi in sasso il nome(2010), Laura Rainieri ora volge lo sguardo alla ‘Madre Terra’, ovvero a Fontanelle, suo paese natale, nonché, per estensione, alla Bassa Padana, da cui si allontanò anni addietro per venire a vivere a Roma, ma con cui ha continuato a intrattenere un intenso rapporto affettivo.

Infatti, come la madre è fonte di vita, così la terra è radice, perciò, se le vicende umane portano i nativi a vivere altrove, è sempre a quella radice che essi seguitano a sentirsi legati, quasi una sorta di cordone ombelicale mai reciso. È dunque questo legame a ricondurre Laura verso il ‘suo’ grande fiume, a far sì che ella ne oda il suono delle acque e accanto vi senta vibrare il cuore dell’erba: frammenti temporali che, per dirla con John Keats, si reincarnano continuamente. Sembra addirittura che Laura, con il suo racconto in versi, voglia far eco alle parole del poeta inglese, che recitano così: Percorrere il regno / di Flora e del vecchio Pan: dormire sull’erba/ cibarsi di rosse mele e fragole[…]E potrò mai dire addio a queste gioie?.

Addentrandoci nella lettura della raccolta, alle poesie vediamo alternarsi immagini fotografiche di mirabile bellezza artistica, un denso apparato iconografico che, aprendo spazi alla visualità, aumenta il fascino del racconto poetico.

Di queste immagini, quasi sempre è protagonista il fiume nelle cui acque si riflettono ora le rive placide, ora danneggiate dalle disastrose alluvioni con le dolorose rovine che vi hanno prodotto. Un dolore, però, mai ripiegato su se stesso, ma capace di spingere, chi ne viene ferito, all’azione indefessa pur di ridonare rigoglio e dignità a una terra oltraggiata da devastanti eventi, talora naturali, più spesso provocati dall’incuria dell’uomo.

Le parole poetiche di Laura riescono a creare da elementi materici, quali la terra e l’acqua, quello stesso incantamento che Fellini creò nei suoi film e, insieme, a renderne palpabile la sacralità, sublimando l’una e l’altra nei versi, come in una preghiera corale.

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Poesia, musicalità, ampiezza di visione figurativa sapientemente mischiate in quest’opera, rinviano a un simbolico ritorno nel materno liquido amniotico, qual è per Laura l’immersione nelle colate di acqua che si trovano in Fontanelle e in Fontana. Serpeggia, dunque, nel poema un flusso di vita fantasmagorico, ma insieme realistico fino all’ultimo sangue, come lo è il liquido nel grembo materno dove nasce la vita. Ed è la stessa vita, fatta di poesia e d’amore, che Laura Rainieri sente scorrere nelle vene, pulsante come il suo fiume, a generare in noi lettori la percezione che quelle acque siano un poco anche nostre, tanto che se qualcuno, per assurdo, avesse scordato il fiume della propria origine, attraverso questa percezione, possa gioiosamente ritrovarlo.                                 (Franca Maria Ferraris)

 

 

 

 

 

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