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Francesco Alberto Giunta Solitaire e altre poesie Kaírós Edizioni, Napoli |
Verso l’infinita esplorazione Si può essere contemporaneamente narratore, poeta, giornalista e saggista? Difficile, ma non impossibile. Francesco Alberto Giunta lo è stato e lo è. Ho ancora fra la mani fresco di stampa il suo ultimo lavoro Solitaire con un sottotitolo succulento e insieme avvincente: Viaggio clandestino nell’infinito letterario e umano del Novecento (Kairós edizioni, settembre 2009). E non nascondo di esserne quasi sopraffatto. Chi e che cosa viene fuori da queste quattrocento pagine che si diramano, assiepandosi, per ogni dove? Un uomo palindromo, pensiero e geografia, storia e anima. Un viaggio periegetico senza inizio e senza fine dentro la filosofia dei luoghi, il tempo degli incontri, la memoria delle idee. Un poliedro infine che emana da ogni sfaccettatura rivelazioni e scoperte, un patchwork casuale e causale. Questi è di volta in volta un uomo rinascimentale che affonda il tacco negli interstizi del ponte sull’Arno, un greco che sbroglia le gomene davanti a Siracusa, un Baudelaire dilaniato fra la poesia dell’insania e l’insania della poesia, un anacoreta tibetano sprofondato nei dubbi e nelle certezze sull’Essenziale, un arciere che lancia oltre lo steccato della conoscenza la speranza irrisolta di un altro orizzonte, il discente che s’abbevera alla Lovanio del Brabante fiammingo. E potrei seguitare in questa investigazione a caccia di un “tesoro d’identità” che riesca a contenere l’incontenibile voglia di vivere e di sapere che anima queste pagine di Giunta. Anzi, questo essere stesso di Giunta. Dovendo nel nostro caso le pagine identificarsi e macerarsi nel magma primigenio dei sensi e della ragione. Vengono incontro sul cammino ontologico di questo fluire scritto e del suo autore, consorzi e parametri che possono avere nomi diversi come vademecum di formazione, vangelo laico e religioso, diario esistenziale, baedeker del giorno dopo. Come si vede sono nomi funzionali, ermeneutici di un indicibile. Eppure questo libro è scritto da un uomo moderno, dei nostri tempi che possiamo incontrare per strada o al bar, che parla come noi e che si è “fatto” alle nostre latitudini, nelle terre meridiane del Paese. Solo che egli riesce a narrarci il mondo fra il sole e il salmastro, fra geroglifici etruschi e aoristi attici. Solo che la ragnatela è come quella di Penelope, si tesse e si ritesse sotto i nostri occhi pur rimanendo fissa nelle pagine. Le quali figurandosi come le capriole dei saltimbanchi reinventano ai nostri occhi coreografie sempre nuove. Ora la Parigi degli anni Trenta, capitale del mondo della tolleranza e della convivenza (che anticipa la Gerusalemme dei giorni nostri dove la certezza del Dio si somministra nei quattro calici di cattolici, protestanti, musulmani ed ebrei) o la Tangeri la bianca scartocciata dai ricordi numidici e punici e dal “nulla vasto e giallo” del deserto, sembrano specchiarsi e interrogarsi nel pensiero del filosofo Jean Guitton o del poeta senegalese della Negritudine, Leopold Sédar Senghor. O il grande tribunale della storia dell’Olocausto allorquando si consegna alla penna di Imre Kertész o Paul Celan o alle strip di Art Spiegelman. Un lungo viaggio. Affascinante come tutti i “gran tour” intrapresi da viaggiatori e non da turisti. Un viaggio dentro e fuori se stesso. Ricordate Il viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre? Le latitudini o i prosceni non si contano e, soprattutto, non contano, siano interni o forestieri, vicini o remoti. Con l’animo umile e il bastone rabdomantico del viandante Diogene alla ricerca di se stesso sotto fattezze e tramonti e aurore e lingue e saperi disuguali, perennemente scanditi su un pentagramma dell’uomo che si fa storia e geografia, passato e futuro, conoscenza e arcano, dicibile e ineffabile. Francesco Alberto Giunta ha le mille anime di progenie antica e perenne. Piero Antonio Toma |
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Con andamento punteggiato da pause e sospensioni il romanzo si muove sull’onda dei ricordi ben inserito in un’atmosfera magica, oseremmo dire, quasi felliniana.Alla nostra attenzione la vita di alcuni ragazzi impegnati come camerieri in una pensione a Rimini,che riflettono la loro epoca: i dorati anni ’60, quando ancora amore, gioco, lavoro, divertimento convivevano in sincronica armonia senza le turbative dei giorni di oggi. I personaggi si muovono in equilibrio sospinti dalla penna leggera dell’autore che rinviandoci alle atmosfere di quegli anni, nella tranquilla riviera romagnola, oggi anche troppo transitata, ci accompagna in un viaggio di sola andata perché il ritorno alla magia di quei giorni non è consentito.Una bonaria simpatia illumina il testo che ci viene incontro danzando fra sole, mare e giovinezza. I dialetti talvolta inseriti servono a meglio identificare il carattere domestico e colloquiale del romanzo. Le Bonin, il Giangi, Giovannino, la bionda Brighitte, sono icone evanescenti e sanguigne allo stesso tempo adagiate sul musicale andante di un film d’epoca.La simpatia delle avventure narrate che non trascende mai, neppure quando si tratta di situazioni che s’intravedono o s’intuiscono piccanti, vedi i corteggiamenti dei giovani camerieri nei confronti delle bagnanti o le pruderies delle signore più attempate alla ricerca di qualche avventura, le effusioni in riva al mare di giovani ancora puliti che si scambiano in fretta il primo bacio, l’atmosfera di completo relax fra ombrelloni, sedie a sdraio e patini.E tutto rimane pulito, quando chiusi gli ombrelloni, riposte le sdraie, sgombrate pizzerie e gelaterie, rimane in bocca soltanto il gusto del gelato, mescolato al sapore di un bacio o all’amaro di un rifiuto. Tutto resta lì su quella placida riva di mare di colore verde-azzurro di cui i camerieri intuiscono i mutamenti e prevedono la rabbia delle ondate, pronti ad allertare le signore in due pezzi a ritirarsi in camera. Così tutto si ripone nella scatola dei ricordi nell’attesa del nuovo anno di lavoro e divertimento. Giovannino sarebbe tornato a servire ai tavoli, qualche cambiamento nell’organigramma della pensione, clienti più vecchi, qualcuno non sarebbe tornato, ma la tristezza non assale quando si chiude il libro perché la vita è simile a una giostra che si muove sempre nello stesso verso dalla quale scendi soltanto quando la corsa è finita. Un romanzo che fa riflettere, dolce e amaro, generoso di spunti narrativi e di riflessione in quella placida atmosfera che sa di romagnolo, e di amarcord. Giuliana Matthieu |
Riccardo Mannori Sulla riva due zoccoli e un patino Ibiskos Ulivieri |
Pietro Nigro Paul Valéry Tindari ed. |
Ogni contributo alla conoscenza di un poeta e in particolare di un maestro e guida quale fu stimato Paul Valery da André Breton, peraltro anche ammiratore di Arthur Rimbaud, desta sempre interesse. Tanto più che non ci troviamo solo di fronte a un poeta ma anche a un esteta, trattatista, matematico, filologo francese. Volendo guardare alle etichette si può dire non rimase estraneo al Simbolismo sviluppandolo in un lucido intellettualismo. Detestò in sede teorica e pratica la rozzezza, la brutalità, la violenza sia intellettuale che fisica. Insito in questo brevissimo accenno a Valery è l’augurio di un meritevole apprezzamento dell’opera che gli amatori non faranno mancare a Pietro Nigro, intellettuale validamente informato in materia e autore di un testo strutturalmente bene organizzato, interessante quale ricerca cui l’autore non nega il personale argomentare. . Brunello Mannini |
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