Recensioni ottobre 2015

 

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Enrico Marco Cipollini, Analisi dei "Rapports" cabanisiani, Antropologia Filosofica, Lithocommerciale, Novi Ligure, 2015.

In un'ottica dedita alla fugacità alimentata da un desiderio vorace di consumismo, l'umano cammino appare inghiottito in un sistema sociale e vitale alienante e apatico, avvinghiato al declino in corsa verso uno sviluppo disordinato senza più la consapevolezza dell'importanza della studio del pensiero epistemologico nella sua storicità. Questo rivendica il bellissimo saggio di antropologia filosofica di Enrico Marco Cipollini sui Rapports du physique e du moral de l'homme di Pierre Jean Georges Cabanis medico e fisiologo francese del XVIII secolo, padre della neurofisiologia moderna. Lo studio di questa pietra miliare nella storia della filosofia e di sconvolgente attualità per l' attenta analisi dei vari aspetti dei fenomeni psico-fisiologici unitari dell'individuo, sottolineando l'importanza dell'inappercepito, dell'inconscio e dell'istinto nella nascita evolutiva del pensiero e dell'agire umano.  Cabanis è definito il padre del "nuovo trattato delle sensazioni", dove la vitalità interiore dell'uomo viene scandagliata con metodo scientifico e considerato un'organizzazione perfetta di corpo e mente autonomo e concreto, mai disgiunto dall' ambiente e dall'educazione. A lui si devono brillanti intuizioni sull'affascinante mondo della mente umana e del suo delicato equilibrio di desideri, conflitti interiori, disordini di giudizio e di volontà, sensazioni, impressioni, appetiti istintuali, disturbi sensitivi e­­ tanto altro. Un delicate trattato sulle patologie, sulle forme di demenza o turbe maniacali , disturbi della sfera sessuale, delirio e follia che anticipa e prepara il terreno alla nuova disciplina medica somatico-naturalista del XIX secolo per una visione antropologica globale, omnicomprensiva fino a toccare temi che diverranno la base della psicologia moderna. A Cabanis si deve un nuovo modello d'interpretazione dell'uomo nella sua unitarietà corpo e mente e della nascita della vita tramite l'osservazione scientifica di dati e fenomeni naturali. È l'inizio di una nuova era scientifica: la biochimica legata alla neurofisiologia. Attualissimo il saggio termina­ con una considerazione dell' autore che recupera il pensiero di Locke e le forme di Kant: l'uomo va rispettato nel suo diritto ad essere autonomo­ e messo nella condizione di esprimere le sue potenzialità, a disporre delle proprie facoltà (il lavoro umano non solo come sostentamento), al diritto all' integrità fisica e mentale perche la vita sia interpretata come merita nella sua sacralità e nella sua interezza.­

Rosaria Chiarello

 

 

 

 

 

Dove vanno a Dormire le nuvole  -  Di Giuliana Matthieu

Ibiskos Ulivieri Editrice, Empoli, 2015

 Le donne di Giuliana Matthieu vivono per brevi istanti come le nuvole, il tempo della lettura di una pagina, ma con una intensità insospettata. L’autrice le dipinge di pennellate nervose, con affabulatorio divisionismo, così che il lettore deve destreggiarsi dentro un caleidoscopio di colori, frammenti di luce e fori nella tela dove il buio si affaccia inquietante. Fa da contraltare ad una narrazione scarna ed essenziale (altro non potrebbe essere per racchiudere ampi squarci di vita in poche righe) una pioggia di metafore, una ricchezza lessicale e infine una partecipazione talmente amorevole e compassionevole delle umane vicende che solo dopo poche righe la figura è già compiutamente delineata, con le sue tristezze, crucci, gioie, con gli avvenimenti e i ricordi più personali, con le intuizioni e gli istinti appena abbozzati, con i sogni e le illusioni. Poi un fatto, un particolare momento delle loro vite, un dramma o una delusione, le inchioda impietosamente ad una croce di rose e di spine mentre gli altri personaggi del racconto, abilmente manovrati, sono il coro che accompagna il solista per rendere completa la partecipazione emotiva del lettore. Non c’è nulla di idealizzato nelle donne di Giuliana Matthieu, non c’è il mito né l’angelizzazione, piuttosto l’umanità affannata di John Steinbeck, la strenua lotta per la sopravvivenza non dei corpi ma delle speranze. Traspare alla lettura l’osservazione attenta, quasi stupita, della forza e della debolezza di una donna, con le caratteristiche precipue del suo genere. Né si intravede un’impronta di femminismo, solo di grande comprensione e sempre di pietà. Questo fa dei personaggi donne vive, persone che hanno vissuto nella malvagità e nella misericordia del mondo, intendendo il mondo che ognuno si porta dentro i propri pensieri ma anche quello che, all’esterno, vive di vizi e virtù e infine quel mondo che esiste nella spiritualità di un dio invisibile e presente, forza cosmica o naturale, forgia di delizie e affanni futuri che noi qui vediamo anticipati nel presente, in un presente senza tempo, fuori dal concetto di tempo che, come convenzione umana, altro non è che un limite alle nostre aspirazioni.

Arturo Molinari

 

 

 

Arthur Alexanian -  Il bambino e i venti d'Armenia

Ibiskos Ulivieri Editrice Empoli, 2015

Cento anni fa fu perpetrata un’azione punitiva nei confronti di un intero popolo. Oltre un milione di armeni furono spostati forzosamente dalla propria terra. Questo movimento fu definito dai turchi una dislocazione tattica, lo si potrebbe chiamare deportazione, olocausto, ma è generalmente noto come il genocidio armeno, che peraltro si colloca entro un’azione più ampia, iniziata già qualche anno prima, a seguito del disgregamento dell’impero ottomano, che portò a sistematici attacchi contro il popolo armeno in Anatolia e in tutta la Turchia. Ma non sono questi i fatti drammatici narrati nel romanzo, infatti l’autore, Arthur Alexanian, colloca i ricordi della madre ad un altro tempo, il 1922, e ad un altro massacro. Infatti persa la guerra (prima guerra mondiale) l’impero ottomano si trovò privato di tutti i possedimenti, almeno quelli che gli erano rimasti al di fuori dei confini turchi, non solo, si trovò anche occupato da francesi, italiani e greci, questi ultimi nella zona di Smirne che era di fatto già abitata da un’antica colonia greca. L’occupazione greca dell’Anatolia occidentale fu cruenta e lo fu altrettanto la guerra greco-turca che ne seguì e che culminò con l’incendio di Smirne nel settembre 1922. La controffensiva turca assunse le connotazioni di una pulizia etnica e si rivolse sia contro i greci che contro gli armeni che, ricordiamo erano cristiani, in parte ortodossi e in parte cattolici. Tornando al libro, non c’è astio nel racconto dei ricordi più angoscianti, solo una malinconica tristezza che si alterna nelle varie voci narranti, quella dell’ufficiale turco che salva la madre, quella delle due donne in fuga da Bandirma, la madre e la nonna del bambino che i venti d’Armenia porteranno lontano dalla sua terra, venti che spirano al contrario perché il mondo sta andando al contrario e il porto non è più il rifugio sicuro. E poi la storia, sempre nell’alternanza di voci, di una diaspora familiare che porta a Venezia, dove la comunità armena era viva e la città accogliente. L’ottima postfazione di Emanuelita Vecchio delinea con puntualità e attenzione lo spirito più recondito del romanzo: una necessità. Necessità di scrivere per riappropriarsi dei ricordi e con essi della propria armenità e quindi ritrovare il proprio io in fuga, fermarlo nelle immagini che la memoria ha riportato vive, fermarlo nei viaggi che sembrano un destino inevitabile, fino all’accettazione del proprio stato che rappresenta il primo passo verso una nuova serenità. 

Arturo Molinari

 

 

   

 

 

 

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