Recensioni luglio 2019

 

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Pietro Nigro – La porta del tempo e l’infinito – Il Convivio Editore, 2018

In cerca del senso della vita tra poesia e filosofia

"Emersi da un abisso / e l'oscurità era ancora nei miei occhi; / nulla nel mio ricordo; / né un'astrazione, né un concetto, né un'idea;/ percorreva il pensiero / la via di una coscienza ancora ignota" . Preludio di versi interrogativi e rarefatti, l'inizio di La porta del tempo e l'infinito (Il Convivio Editore), opera del poeta siciliano Pietro Nigro, che esplora il trascendente perché dell'esistenza. Come un bambino che col primo vagito si riflette nello specchio della vita, l'uomo si mostra nudo e intimamente smarrito davanti al mistero insondabile dell' essere, figurativamente rappresentato da un deserto crudo e inospitale, assediato da un costante bagliore, che, invece di consentire un più facile cammino, acceca occhi e mente, confondendo l'anima nella comprensiva ricerca dell'itinere, fecondo di dubbi e timori ("Non sapevo ancora cosa fosse / né a che sarei andato incontro"). Di fronte all'annoso dilemma se il tessuto della nostra storia davvero ci appartenga, se ai nostri passi sia concessa libera strada da inventare, o se ignari obbediamo ai messaggi subliminali di un sentiero già deciso che non ammette dissonanze, seducente è talora la tentazione di lasciarsi andare alle vischiose sabbie dell'impotenza (,'Meglio non nascere / se ancora al principiare del cammino / ghermisce la morte / le inutili illusioni / di una vita ignota, / ma già al nascere figlia della speranza, / nutrita di promettenti sogni"). L'imperituro vate di Recanati effonde orme brancolanti e plumbei veli d'occaso. Nei versi di Nigro, l'io non è ego-riflesso, bensì aperto al richiamo del mondo, all'universalità del sentimento, convivenza con il mistero della vita e la paura della morte, solo in parte confortata dalla carezza dell'eterno ("Speranza che al di là della morte / non ci sia rovina / ma pace e bellezza, / non energia che si consuma / ma amore e vita"). A supporto della reciproca e ispiratrice commistione fra le arti, suggestivi sono gli omaggi alle trasfigurazioni pittoriche di Vassily Kandinsky (la copertina indossa la sua "Improvvisazione 8"), Marc Chagall ("A quel mondo sorride il mio pensiero / ala che sostiene il mio peso, / e tra nuvole rosa, azzurri sprazzi / incontro Chagall / verso il paese dell' anima") e Giorgio De Chirico ("Strisce di zebra sul volto I ombrano i tuoi occhi I pensosi d'un carico di vita / e fissano immagini in metafisici concetti"). Lo sguardo penetra nell' altrui sogno, lo pervade, si fonde riconoscente­­­ in esso, per poi separarsene, arricchito. L'austero trono della conoscenza, col suo sperimentato coacervo di formule e paradigmi, è insidiato dallo sfuggente mondo dell'invisibile, impalpabile ma inestinguibile consapevolezza del non sapere, che s'insinua, evanescente, nel sussurrante groviglio dei pensieri (,'Circolo vizioso che non ha mai tregua I fatue teorie che si dissolvono / nel vacuo mare di un' incertezza eterna"). La pervicace solitudine dell' uomo, raminga compagna all'ombra del solstizio, veste il diario di muti focolari, pallidi testimoni di sentieri passati, orfani del ricordo di una mèta, mentre i fantasmi dei cuori che furono sfiorano, timidi, la dimensione dell'oltre, a custodire un tempo sospeso nel ricordo ("Sono ormai spenti i solitari comignoli / di case abbandonate all'ultima luce, / presagio oscuro nell'implacabile foschia"). L'assenza è palpito di memoria, materna dimora d'immagini. Prima fra tutte, quella di una figlia amata, partita troppo presto, disegnando, all'apice del cuore, parole di rara dolcezza ("Ci resta soltanto una speranza: I riudire un giorno la tua voce I quando le nostre anime I si libreranno / nell'infinità del tempo"). Questa vita che ci sfugge, come vento sottile fra le dita, effluvio di verità che non ci è dato sapere. Quanto cammino resta per l "'oasi nascosta", a dirimere l'enigma del silenzio? Arduo, in questo viaggio, il destino del poeta, occhio lungimirante, ala che vibra libera nel vento, suggendo la straniante meraviglia di paesaggi ai più negati, avida d'inesplorati confini; ma anche incautamente fragile, sanguinante d'incomprensioni, cadute trafitte dal fulmine e spari traditori. E con ciò incapace, a pena di maggior sofferenza, a distaccarsi dalla sua rotta (,'Anche quando il mio corpo / più non avvertisse aliti di vita, / pur godrei luci di pensiero, / eterni mondi creati dalla mente / e sarei poeta ancora una volta / a descrivere paesaggi di speranza"). Perché, ricordando una famosa frase del grandissimo Federico Garda Lorca, "La poesia non cerca seguaci, cerca amanti". Amanti, sì, come l'appassionato sognatore Hoffmann, protagonista della pièce di Jacques Offenbach - citata nel suo epilogo, al termine del libro -, il quale, tristemente deluso dalle donne (o presunte tali, visto che una di esse è in realtà un automa) su cui aveva riversato il suo desiderio, rimasto alfine con l'unica, solerte compagnia della sua malinconia, acconsente a dedicare la sua esistenza alla Musa della poesia, apparsagli come una visione di consolante e invincibile bellezza ("L'uomo non esiste più,  rinasci poeta! / Con le ceneri del tuo cuore / riscalda il tuo genio, / nella serenità sorridi ai tuoi dolori"). Poesia che di certo non lo tradirà, come non tradisce chiunque sappia credere nella sua magia.­­­

Francesca Migliani

 
 

Anna Piccardi - A Usigliano sotto le stelle - Art Event Book, 2009

L'autrice ci racconta di un periodo felice della sua infanzia trascorso nella Villa Forti di Usigliano di Lari, in quella realtà paradisiaca a contatto con la natura, fonte di ispirazione artistica e di iniziative. Con l'immaginazione torna bambina a quegli anni, a cavallo tra le due guerre, in cui coglieva con il suo spirito libero, le incongruenze di una dittatura e le angosce dei grandi destinati all'esilio; il libro è anche un modo per ricordare gli zii illustri: Ferdinando Liuzzi e Mario Castelnuovo-Tedesco che le hanno conferito una particolare predilezione per la musica. Un diario che respira tra pagine di vita, vivida emozione nei ricordi della protagonista che narra la sua storia e la fa rivivere negli occhi di ogni lettore. Gli anni migliori, quelli della giovinezza, trascorsi nella spensieratezza di attimi racchiusi nella descrizione della natura, di stati d'animo impressi con amorevole inchiostro e della passione che gli zii Liuzzi e Castelnuovo-Tedesco trasmettono ad Anna Piccardi. La ragazzina legge attraverso i loro sguardi misteriosi l'amore per la musica, ma la protagonista narra anche con affetto il legame per la sua famiglia e per il gruppo di amici che nel periodo estivo si ritrovava presso la villa Forti di Usigliano di Lari. Un racconto di una donna odierna che ritorna con gli occhi dei ricordi al tempo in cui era una tredicenne: si denuda in ogni sua emozione e riflessione partendo dalle sue origini e scartando la sensibilità per ogni piccola cosa grazie al suo cuore di grande osservatrice dei più 'grandi', gli adulti. Lei farà proprio un confronto tra i suoi pensieri adolescenziali, il forte dolore causato dallo scoppio del secondo conflitto mondiale che le porterà via per sempre un pezzo del suo cuore e la saggezza che soltanto oggi è riuscita a raggiungere attraverso le mancanze della vita. Anna Piccardi non intristisce il lettore , perché a fianco di questa crudele realtà narra con passionalità delle cose che impara a conoscere riguardanti ogni tipo di disciplina, ma soprattutto il recupero di un antico manoscritto del XII secolo. Non mancano neanche i ricordi delle filastrocche e musiche create da suo zio Castelnuovo-Tedesco rimembrate con amore. La Piccardi ci apre il suo diario biografico scritto con una sorta di forma di dialogo indiretto, una scrittura ricollegata alla bambina che era all'epoca. Una lettura scorrevole, cullata nel meraviglioso piccolo e incantato mondo di un paesino toscano. La storia dell'autrice è come una stella che non ha cessato mai di battere nel cielo del mondo, rendendo ancor più luminoso quel frammento di manto sopra Usigliano.

Francesca Ghiribelli

 

 
 

Giuliana Matthieu - Salici di pozzo - Ibiskos Ulivieri, Empoli 2018La scrittura e l'architettura compositiva di questo libro si corrispondono.­ Una scrittura elegante, piana, mai ermetica né banale, densa ma senza fronzoli né barocchismi, punteggiata di immagini, lascia spazio a una forte componente visiva. Altrettanto densa è l'architettura: si compone di racconti, brevi, con una struttura tripartita: incipit, sviluppo centrale- in cui di solito si pone il sogno- conclusione. Come in una Ringkomposition, una composizione ad anello, così procede il racconto. Rispecchia una struttura concentrica, dove ogni racconto si apre e si chiude intorno a un nucleo centrale. Come quando viene gettato un sasso in uno stagno e una serie di onde si propagano dal centro. A ben vedere però ciò non sembra del tutto vero, perché il flusso del respiro e del pensiero che si propaga all'interno di ogni racconto pare non concludersi al termine di ciascuno e piuttosto sospingersi in quello successivo.­ Anche se lo scenario cambia e mutano i personaggi, non cambia il flusso che si sviluppa come una spirale avviluppando il lettore, come se un unico pensiero, un unico filo conduttore si dipanasse, di racconto in racconto, a toccare insoluti grumi e a rifletterne soluzioni ed enigmi in una serie di specchi dell'anima. Ed è esattamente un affascinante gioco di specchi tra realtà e sogno. Quest'ultimo è il vero protagonista del libro, a fianco della donna, che appare quasi costantemente, ma non necessariamente. Si possono anche rintracciare riferimenti biografici, ma non è questo il senso del libro.­ Piuttosto il senso è da rintracciare nella capacità di confrontarsi con i propri sogni, il proprio io profondo: le paure, i limiti, le angosce e le aspirazioni. Guardarli dritti negli occhi! Questa capacità prende forma in modo poetico, evocativo, onirico, a tratti drammatico, ma con grande forza, equilibrio, visionarietà. Ed è interessante seguire l'autrice mentre descrive alcuni scivolamenti nel sonno dei protagonisti o il loro vacillare tra il sonno e la veglia, in uno stato particolare di coscienza. Cristiano Mazzanti ha parlato a proposito di questo libro di "Realismo magico" , alludendo alla tensione di pittori e scrittori ad introdurre elementi surreali in contesti per il resto perfettamente realistici. A me verrebbe da pensare a uno speculare "naturalismo onirico", nel senso che il sogno si insinua con perfetta naturalezza nel contesto descritto nel racconto e ne dispiega i risvolti più profondi; è dialogante con la realtà, addirittura risolutorio, è in grado di scioglierne i nodi, di anticipare soluzioni. Forse è capitato anche a noi di fare esperienze simili. Non solo anticipatorio, il film che ci regaliamo, specialmente nel sonno notturno, in particolare verso le prime luci dell'alba, all' approssimarsi del pieno risveglio della coscienza e del suo ripristino di collegamento tra anima e corpo, è in grado di contenere soluzioni a rebus intimi, per chi riesca a scorgerli e a interpretarli. Ma questa operazione di armonia nella crisi e di turbata riconciliazione con se stessi, è tutt'altro che banale. Giuliana Matthieu riesce a coglierne sfumature, suadenze, pericoli, insinuate come tra le pieghe di un cangiante tessuto in cui la luce pulviscolare riverberi ulteriori gradazioni contrastate di colori che il nervo ottico fatichi a tracciare e catalogare.­­­­­ Il sogno è quindi visto come una finestra temporale e visuale. Nel tempo in cui dura il sonno è come se l'anima/l'io stesse alla finestra a guardare ciò che accade dei propri pensieri, delle proprie paure, delle proprie aspirazioni. La poesia, in forma di racconti brevi, raccolta da Giuliana Matthieu in questo libro appare un dono di dilatazione di tempo, in cui l'anima si concede la distanza di "in/sicurezza" per osservarsi vivere, sentirsi partecipe delle proprie e delle altrui sofferenze ed emozioni più profonde senza l'imbarazzo dell'offesa, ma piuttosto con il calore della speranza in una più autentica empatia con se stessi e con gli altri in quanto parte, ciascuno, di un cosmo alla cui bellezza cooperare, vinta la crudeltà.­­

Maria Francesca Pepi

 
 

Roberto Amerighi  -  La presa di Bona  - AR 2019

 

I Cavalieri che fecero l'impresa

Non tutti sanno che i "Quattro Mori", celebre gruppo scultoreo simbolo della città di Livorno, porta con sé una lunga storia di lotte, iniziata nel sedicesimo secolo con l'intento, da parte del neonato Granducato di Toscana, di arginare la progressiva crescita della marina ottomana nel Mediterraneo, portata avanti, in particolare, con destrezza e determinazione, da Khayr al-Din, detto il Barbarossa, che alla testa della sua armata aveva saccheggiato le coste e le isole minori del Mar Tirreno (Ischia, Lipari e Giglio), deportando e riducendo in schiavitù le popolazioni locali. Urgeva la necessità di creare una flotta a difesa della cristianità e degli interessi statuali, e con tale obiettivo fu istituito, nel 1562, 1"'Ordine di Santo Stefano papa e martire", alla cui impresa più famosa, la "Presa di Bona" - roccaforte algerina, la cui espugnazione avrebbe contribuito ad imporre il peso della monarchia di Ferdinando I di Toscana all'attenzione dell'Europa e dei paesi mediterranei - è dedicato il libro dal titolo omonimo di Roberto Amerighi. Con un’attenta e particolareggiata ricostruzione storica, l'autore ci trasporta, con la sua personale macchina del tempo, in un’epoca lontana, scenario di piratesche scorrerie, diario di calibrate tattiche. Partendo dalla descrizione dei preparativi nel porto di Livorno, sotto l'abile comando del condottiero senese Silvio Piccolomini, Gran Contestabile dell'Ordine stefaniano - oltre che precettore e maestro d'armi del Principe Cosimo, primogenito del Granduca - le tappe della missione - dalla partenza, il 30 agosto 1607 -, si snodano attraverso i quadri di un racconto agile e puntuale, impersonato dai suoi più famosi e valenti protagonisti: oltre al Piccolomini, Jacopo Inghirami - Ammiraglio dell'Ordine e capo supremo dell'impresa -, il Cavaliere Guillaume de Beauregard - comandante di marina corsara, Cavaliere di Malta e di Santo Stefano, nato in Francia ma originario dell' antica famiglia fiorentina Guadagni -, e Fabrizio Colloredo - giovane Cavaliere stefaniano. La riuscita della missione contro l'armata turca - nonostante il mancato effetto sorpresa, causato dai ritardi nelle operazioni di sbarco -, culminata nell' assalto alla fortezza e nella conquista della moschea, valse grandi onori e riconoscimenti ai suoi artefici, rientrati a Livorno il 27 settembre 1607, e salutati come degli eroi dal popolo esultante. Dal punto di vista della­­­­­ politica estera, quello di Bona fu uno dei più grandi successi ottenuti sulle coste ottomane: il prestigio internazionale del Granducato ne uscì rafforzato, e la compagine navale toscana conquistò un ruolo di comprimaria nel Mediterraneo, arrivando a competere con le più antiche e quotate marinerie. A futura memoria dell'impresa, nel 1608 il Granduca commissionò a Pietro Tacca una statua, destinata alla città di Livorno, e da allora conosciuta come i "Quattro Mori"­­­ - che ancora oggi rappresenta una delle mète più ricercate dal turismo locale -, retaggio, purtroppo, dell’altra faccia della medaglia di quella vittoria: i numerosi schiavi - uomini, donne e bambini -, destinati, al prezzo di novanta ducati ciascuno, al mercato di Cagliari e a quello labronico. Dettagli, questi, consapevolmente omessi dalle cronache del tempo, tendenti a rimarcare solo gli aspetti positivi della campagna militare. Nel 1609, con la morte di Ferdinando I, la gloria della Toscana sui mari andò lentamente affievolendosi, sebbene il Granduca Cosimo II avesse tentato di perpetuare i trionfi paterni con il rinnovamento della flotta, condotta, poi, verso una graduale dismissione dai nuovi equilibri instauratisi nel Mediterraneo. L"'Ordine di Santo Stefano" perse a poco a poco le sue connotazioni militari, per divenire un'istituzione a carattere esclusivamente religioso. I partecipanti all'impresa divisero le loro strade, e come sempre accade, le loro gesta vennero lasciate indietro dall'ineludibile cammino della storia.­ Oggi, silenzioso testimone d'impetuose battaglie, custodito da pigri voli di gabbiani, rimane lo sguardo immobile di Alì Melioco e dei suoi tre fratelli, fieramente incatenati ai piedi del potere, sognanti nostalgia di libertà.

Francesca Migliani

 

 

 

 

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