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Adriana La Terra La vecchia dogana racconta… miscellanea di prose e poesie Editrice Ibiskos, 2006
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Lucida, scarna, vivace ed intrigante con il gusto della parola trattata con giusta appropriatezza, la prosa di Adriana La Terra procede con il tranquillo equilibrio di chi conosce il suo diretto interlocutore cui vuole raccontare per partecipare emozioni, sensazioni ed ansie. E tuttavia la scrittrice conduce il dialogo senza scossoni, divertendosi a divertire, continuando quel percorso narrativo che fra sussulti, emozioni, paure e titubanze ne hanno scandito il cammino letterario. Pietre miliari che punteggiano un percorso di lavoro, talvolta difficile, talaltra divertente, ma sempre percorso di vita. E della vita Adriana dice che va vissuta fino in fondo senza tentennamenti, eccessive ritrosie, falsi pudori o false reticenze. Il piacere della parola sempre bilanciata e diretta a scandire una situazione è predominante nella sua prosa che in questo modo acquista linearità e spessore senza mai dilungarsi in inutili descrizioni, recuperando in tal modo al suo controllo fatti e situazioni di sempre nuovo e diverso interesse, perché scrivere in qualsiasi momento e in situazioni anche non felici è dovere dello scrittore o di chi si ritiene tale. Per Adriana la scrittura è il luogo degli incontri come dice Alda Merini o meglio è il riflesso della vita da cui trarre insegnamenti, ma soprattutto propositi e avvertimenti per migliorare, cancellare o mettere in risalto eventi vissuti così da decifrarne il significato nascosto o il perché del loro accadimento. Si potrebbe dire che la scrittrice scandisce il tempo, che talvolta non è già più tempo, ma soltanto la sua ombra. E Adriana, come tutti noi, sa che il tempo non ci appartiene, quindi complice outsider di situazioni non più sue, gioca con le immagini perdute o ancora presenti. Già il titolo del libro “La vecchia dogana racconta”, miscellanea di prose e poesie, riassume sia pure in maniera schermata, il contenuto: piena coerenza fra realtà e rivisitazione letteraria. Situazioni sempre diverse narrate con straordinaria vivacità, sorrette da quella leggera ironia che smorza spesso la drammaticità degli eventi. Ora gioiosa, ora drammatica, mai tragica, l’autrice recupera alla memoria il suo mondo lavorativo dove, giorno dopo giorno ha raccolto esperienze, voci e impressioni alla cui quotidianità ha sottratto momenti, di volta in volta lirici, fantastici o intriganti, sempre animati e rivisitati però dal suo forte spirito di generosa sicilianità.“Salvuzzu u’ catanisi”, “Il sensale”, Compare Saia”, “Turi Restuccia e Peppe Vadalà”, “Gianni Palla e Peppe u’citrolu” affettuosamente delineati dalla sua fertile inventiva, sorprendono per l’immediatezza dell’affresco di vicende e fatti della sua terra e si collocano a pieno titolo nella storia della Sicilia, mentre altre storie che si presuppongono autobiografiche (Penna Nera, Principino, Le quattro stagioni) nascono dall’urgenza di voci interiori o sollecitazioni di qualche recesso della memoria. E tuttavia quanto di personale, di vero o inventato nei suoi racconti non è dato conoscere né d’altro canto lo desideriamo. Ma nelle storie narrate all’ombra della vecchia dogana color fragola, al di là del fatto narrato, talvolta banale, è soprattutto la profondità dell’esame psicologico di ogni personalità descritta: “Storie sepolte”, “Ho fame”, “Io resterò a Bagdad”, quasi idea borgesiana del sogno nel sogno. Esame psicologico, si è detto, che nasce dalla volontà della scrittrice di denunciare sia pure in modo benevolo talvolta ironico, mai distruttivo certi modi di fare e di pensare della sua terra cui lei è molto attaccata, ma non per questo cieca; gli occhiali andrebbero portati fra l’occhio e il cervello, così da avere piena conoscenza dei nostri difetti e limitazioni. In “Compare Saia” per esempio, niente di totalmente negativo nella figura del killer che uccide per vivere arricchendosi in questo modo, ma una penosa distorsione di una natura nata bella, degenerata per colpa della società. Mai totalmente buoni o totalmente cattivi. E cosa dire del “Sensale” abile e astuto nella compra vendita di immobili e anche di umani, la cui personalità anche ambigua, a ben leggere dentro non ottiene mai totale disapprovazione ma soltanto benevola riprovazione al punto da muovere al sorriso.La scrittrice conosce la sua terra al punto da denunciarne i difetti, le mancanze, i torti gravi o meno gravi, senza calcare la mano, perché in fondo parla della sua terra carica di storia, di passato, di tradizioni che non si possono rinnegare, perché la Sicilia è anche questo:sintesi di innocenza e perversità. Storia dopo storia, (diciassette sono i racconti) l’autrice suggerisce con garbo fra righe e versi alcuni valori primari: tolleranza, pazienza, convivenza, prudenza e soprattutto lo stupore del vivere sempre nuovo e felicemente inatteso sia pure con le sue prove necessarie. Giuliana Matthieu |
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Già promettente emblema mi era apparsa tout court l’immagine di copertina di questa raccolta di poesie di Pietro Nigro. Riproduzione di un dipinto di Pablo Picasso dal titolo Le colombe (1957). Un paesaggio conservato nel museo di Barcellona dedicato all’artista. Soggetto non a portata di mano, perché raro rispetto all’immensa produzione di Pablo, e per esempio al suo museo di Parigi ne sono portatori dipinti come Dejeuneur sur l’herbe, da Manet (1960) e il Paesaggio di Mougins (1972). Comunque sia la scelta rimane il frutto di un felice incontro, vuoi pregresso che di altra occasione. Sta di fatto che a fine lettura è dato constatare quanto la scelta si manifesti simbolica specie nei confronti della prima sezione di poesie intitolata Riverberi: liason fra rappresentazione visiva e testo poetico? Avverte Leonardo nel Trattato, la pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca. Così, mentre il citato dipinto Le colombe si riconosce in una zumata che partendo dall’atelier dell’artista incontra colombe e natura per sostare estatica nella distesa marina increspata dal vento nel cielo mediterraneo, ecco le immagini verbali del poeta dipingere bianche colombe, carezze di vento, sorrisi di verde, splendore di sole nell’azzurro del mare. Detto questo, anche quale attestato che un poeta moderno come Nigro non ha buttato la Natura nel cassonetto delle presunte spazzature letterarie, non supponga il futuro lettore ritrovarsi in Arcadia. Tutt’altro. Perché se il poeta apre gli occhi sullo splendore del mondo, non ignora che le eclissi prodotte dal pianto sono la condicio sine qua non è consentito agli umani cogliere la piena misura di tanto splendore (cfr. Perché, mio Dio). E pianto non è da intendere come piagnisteo di prammatica né per rimpianto, ma sublime effetto d’impotenze umane. Impossibile qui citare versi delle numerose liriche che, con andamenti personali e essenziali al rischio d’ermetismo ma di lampante verità poetica sanno condurci fino in vetta a ciò che in assoluto più duole in noi: “l’ansia d’eterno”. Non sarà gratuito quindi quell’attimo di disincanto per le parole e del consiglio datogli dal vento di creare solo silenzi (cfr.Vanno i tuoi giorni alla meta). Defaillance cui il poeta nel chiudere la sezione reagisce con l’originale ipotesi E se fossimo dei file / uno dei tanti / che dii sperimentano… La seconda sezione della raccolta, 9 canti parigini, si identifica in un rendez – vous sentimentale dove i canti sono stati tradotti in francese con testo a fronte. Un valore aggiunto che permette al lettore, per così dire, una doppia degustazione poetica. In sostanza, se si esclude il canto dedicato a Chopin, i luoghi ritrovati, Montmartre, rue Norvins, Quartiere latino, boulevard Saint Michel, Bois de Boulogne si fanno anelli fra passato e presente di un amore che trascende l’effimero. Amore è bello, anche quello vissuto da altri, specie da un poeta che lo esterna ai propri lettori. Perché non è vero sia cosa che interessa solo i due che si amano e quindi la tiratura della raccolta dovrà limitarsi a due soli esemplari. Si legge lo sostenesse un dittatore parlando alla poetessa Anna Acmàtova. Brunello Mannini |
Pietro Nigro Riverberi e 9 canti parigini Poeti nella Società Cenacolo Accademico Europeo, 2003 |
Mario Verdone Il viale dei ciliegi Editrice Ibiskos 2006 |
Molti i contatti fra la letteratura occidentale e la poesia giapponese. Alcuni esempi: Roland Barthes ed il suo folgorante incontro durante il viaggio in Giappone che produsse il famoso “L’impero dei segni”; la produzione letteraria del buddismo californiano con gli Hai ku di Kerouac, le recenti sperimentazioni anche didattiche in Italia… l’elenco potrebbe allungarsi come un ramo di ciliegio tanto per rimanere in tema. Gli Hai Ku di Mario Verdone presentano molte caratteristiche che fanno di questa silloge “romana” un capolavoro lirico ed iconografico nato dallo studioso del cinema sempre in viaggio attraverso le rotte carovaniere della cultura. In primo luogo il rapporto fra Hai Ku e filmografia: il cinema è composto da tante unità iconoche come questa poesia giapponese si forma attraverso “pepite di immagini” estratte dalla grande miniera della poesia. Il testo di Mario Verdone segue fedelmente la “tecnica” dell’Hai Ku a partire dal “kigo” cioè il riferimento esplicito alle stagioni. Le immagini poi, attraverso una simbologia delicata, si svolgono con la dolcezza della brezza che accarezza la vegetazione portando il lettore verso uno stato di libertà interiore. Rivendicato anche il ruolo storico dell’Hai Ku come appunto veicolo verso la libertà con l’immagine tragica e profonda del decapitato che però conserva ancora le ali per volare oltre ogni confine di leggi e territori. Un’osservazione finale: la traduzione giapponese è una prova della calda accoglienza e quasi un “timbro” di garanzia; adesso il lettore italiano deve tradurre questi petali lirici nel suo intimo come un respiro di vita. Cristiano Mazzanti |
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Che Antonia Izzi Rufo sia la poetessa del sentimento intinto nella speranza che qualcosa del suo mondo permeato di riso e pianto, nostalgia di affetti perduti,foglie di pioppo, effluvi di erbe canti di grillo e giochi- carezza dell’onda, non vada perduto, è fuori discussione. Chiunque si accosti alla sua raccolta Io natura e amore non può che assentire, perché le sue parole peraltro semplici ma sorrette allo stesso tempo da una buona impalcatura di pensiero che denota una lunga frequentazione della poesia e dei suoi canoni,manifestano questo suo eterno giostrare con i versi, fluidi, liberi da sillogistiche implicazioni, mai celate da espressioni metaforiche. Io: la poetessa immersa nel suo mondo fatto di chiarezza, semplicità e genuina risposta alla chiamata della vita cui lei non si sottrae, ben consapevole tuttavia delle sue tante problematiche; Natura: la stessa che l’ha vista nascere, crescere, un ricordo inalienabile di colori, profumi, pulsioni; Amore: un’entità di cui non si conoscono i limiti, si ignorano i confini e non si saggiano gli impulsi. In una vasta moltitudine di sentimenti carichi di significati: Foglie morte, Albatro, Allegria di colori da diventare progetto di arte e vita in una commistione quasi sacrale, la realtà terrena per la poetessa trova senso e si fonde con quella religiosa al punto che, pur non conoscendola, osiamo ipotizzare che anche lei lo sia. Ma quello che più affascina della sua poesia è la dedizione totale al paesaggio Devo scendere in te mia natura / per obliare pensieri molesti / rilassarmi / il profumo aspiro del timo / trattengo il respiro / ascolto il silenzio dove al di là del suono musicale dei versi si legge, intuisce, assapora la sua profonda immersione nella tavolozza naturale quasi fisicamente gustata. E questa particolarità che le permette di nutrirsi del paesaggio è senz’altro indice di una non comune sensibilità che accomuna in una triade ravvicinata il suo mondo interiore carico di femminile intuito a quello naturale e sentimentale facendone un tutt’uno. Giuliana Matthieu |
Antonia Izzi Rufo Io, natura e amore Edizioni Tigullio, 2006 |
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