Recensioni Aprile 2009

 

 

 

 

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Lido Pacciardi

Ieri... a Collesalvetti

Facile e difficile allo stesso tempo presentare Lido Pacciardi: per quella identità di vedute, sentimenti, emozioni e ripartizioni della nostra epoca sembra essere nato con me da una madre comune, forgiato dalla stessa matrice, buona o cattiva non so, certamente simile, nonostante la diversità di luogo, famiglia, formazione culturale. E tuttavia simile. A renderci diversi invece la forma mentis, scientifica la sua, illogica, fuori dagli schemi la mia. Ma in assoluta franchezza quel frinire di cicale, quegli alberi creati a misura per cantare la natura, quelle figure sottratte al tarlo del tempo o alla memoria, collettiva se vogliamo, è assolutamente identico. A latere ma non marginale la sua preparazione rigorosamente scientifica dove i protoni, i neutroni, i neutrini, la teoria dei quanti ci dividono: lo scienziato insomma che si fa largo sia pure ammorbidito dalla comune visione di una natura bella e generosa. E i conti, se di conti bisogna parlare, allora tornano. E tornano soprattutto per quella visione fantasiosa e immaginifica che illumina le pagine del suo libro dove le figure simili a monumenti sfidano il tempo, la storia e il martellare dei giorni. Stellina il cane che attende paziente il ritorno di un padrone umile come lei, la Vittoria che entra nel piccolo orticello con la rete fasciata di convolvoli, Beppe il cacciatore capace persino di percepire lo strusciare dei rettili, per il quale ogni uccello anche il più piccolo aveva un nome… il balio che all’inizio dell’autunno tirava fuori una grossa padella di lamiera che arroventava per cuocere le caldarroste, e ancora il Ti, la fonte, i lavatoi, il tinaio, l’arrotino, gli animali aggiogati che aspettavano pazienti, le rogge, i casolari, la vita di un tempo neppure tanto lontano, suo per la verità, ma in fondo di tutti coloro che considerano i passaggi epocali non perduti, e neppure morti, ma incollati su uno schermo gigante fuori dalla nostra fisicità, imprendibili, inaccessibili, ma non per questo inesistenti.E allora come per tutto quello che non si può più stringere fra le mani, toccare, respirare, mangiare, carezzare, interviene quel senso di nostalgia per cui anche il freddo dell’inverno, il lavoro duro che non paga, le scarpe rotte, il pane riposto nella madia, gli zoccoli scomodi o le fatiche dei campi diventano fantastiche esperienze per lui come per tutti coloro che guardano all’ieri ricreato nella fantasia; che sia Colle o un altro luogo, non ha importanza. E il passaggio dei giorni tranquilli o agitati che siano stati, rientra nella dimensione del mito dove tutto spalmato dalla polvere del tempo che se la ride, acquista il sapore della leggenda. Ma il tempo, Lido, da buon scienziato, dice che non esiste. Una categoria della mente, una elencazione di giorni che l’uomo si è dato per ripartire le sue giornate, per darsi un tempo per nascere, crescere, amare, vivere e morire. E forse questo ripartire la giornata, questo martellare di ore e minuti,questo transennare il tempo, rinchiuderlo in periodi, in questa assurda elencazione di date ha deciso per la sua infelicità. E il tempo se la ride fuori di noi e dentro di noi. E la domanda chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo, oggi come ieri, come domani rimane insoluta. Quest’atmosfera così analiticamente narrata, però, non suggerisce pensieri di finito, ma la gioiosità di un percorso che ha tracciato un’epoca da cui forse si dovrebbero trarre suggerimenti positivi. E allora la sua scrittura efficace, condensata di rigore e consapevolezza letteraria dove i tanti riferimenti al suo brillante passato scolastico non infastidiscono, ma portano alla mente la validità di una buona preparazione, al contempo ricca di gustose scenette sottratte alla vita di una campagna o di una vita contadina dimenticate, ci rende partecipi del suo mondo e decide per la nostra tranquillità, alleggerendo perplessità, dubbi, motivi di dissenso e paure, mentre riporta il sorriso sulle labbra. Su tutto la sensazione che per Lido la famiglia sia sovrana, il ceppo, insomma, sul quale l’umanità dovrebbe poggiare. Dovrebbe…

Giuliana Matthieu

 

È uscito, per i caratteri della Genesi Editrice (Torino 2008 pag. 170) l’ultimo libro in prosa di Gianna Sallustio intitolato “Mojo… mojo” che in lingua “tetelà”, uno dei dialetti parlati nel cuore del Congo significa: ciao… arrivederci. Leggiamo dal primo racconto intitolato “La messa sotto il mango”: “E donne e bambine uscivano dalle capanne di bambù urlando il saluto “mojo mojo” e maman Gianna rispondeva “mojo, mojo…” ridendo orgogliosa e sollevando le braccia. Saluti ripetuti in coro selvaggio, divinamente spontaneo. È il confronto che convince. Nel nostro vivere cosiddetto civile è la formalità che domina il tutto e annega spontaneità, buone intenzioni, generosità, altruismo ossia soffoca il meglio, quel meglio che è in tutti, che per difesa, per timore d’essere giudicati, commentati, calunniati seppelliamo nella buia cassetta della prudenza, del non fare il passo più lungo della gamba, del quieto vivere, del banale, del conformismo”. Questa constatazione di Gianna Sallustio contiene la sua personalità di donna autonoma che a 70 compiuti non si arrende alle formalità e alle religiosità fatte solo di frequentazioni chiesastiche e pochi fatti a favore degli infelici di questo pianeta. Ella è stata per quattro mesi (tra il 2004-2005) nella Repubblica Democratica del Congo, come volontaria presso la missione del sacerdote salesiano nonché architetto, padre Tiziano. Ella, dopo il primo viaggio scrisse e pubblicò un diario africano “Sango Mondèle” il libro che, offerto, raccolse una somma tale da costruire un ospedale per i poveri come è testimoniato nel primo racconto di questa silloge. In quelle zone dell’Africa non esiste neanche l’idea dell’assistenza sanitaria pubblica. Anche gli altri racconti pur di diverso argomento, sono significativi. In tutti si avverte un rigetto fisico-morale per le formalità di ogni genere che riteniamo necessarie nel nostro vivere “civile”. Particolarmente interessante è il racconto “Quel cretino di Garibaldi” nel quale la Sallustio riprende la storia del Meridione (chiamandolo la mia nazione) e risponde alla sicumera immonda di chi, uomo politico del Nord, ha pronunciato quella frase. La prosa di Gianna Sallustio è espressa in stile concreto, asciutto, vigoroso. “Mojo…mojo” è una raccolta di gradevolissima lettura per la sua rilevante evidenza rappresentativa. È un libro di denuncia e di amore. Per esempio nel racconto “1948”, periodo vibrante di fermenti politici (per la prima volta le donne andavano a votare), l’autrice con ironica ed amara perplessità sottolinea la scomunica vaticana contro certi partiti e la preferenza da parte sempre della Chiesa Romana per altri partiti o ideologie che avevano voluto la immane tragedia della seconda guerra mondiale. In questi primi anni del 2000 la situazione è altrettanto tragica: i poveri diventano più poveri e i ricchi più ricchi, rifugiati nella cassa di sicurezza dei propri privilegi difesi da una politica maligna. Illuminante e appassionata è la lettera-presentazione dell’editore nonché critico famoso, Sandro Gros-Pietro. Questo libro per la prosa coinvolgente e incalzante dell’autrice si legge d’un fiato. Esso è finalizzato a raccogliere fondi volontari per la costruenda casa famiglia “San Domenico Savio” nella cittadina di Playa Grande in Guatemala, sempre sotto la direzione e la competenza del sacerdote salesiano padre Tiziano, che nonostante le tante malattie che assillano il suo corpo, insiste a comportarsi da cristiano testardo e arrabbiato come Cristo quando cacciò i mercanti dal tempio. Aiutiamo a strappare dalle grinfie dei trafficanti di organi i bambini poveri e abbandonati del Guatemala.

Maria Marcone

Gianna Sallustio

Mojo... Mojo

Genesi Editore

 

Umberto Lucarelli

San Giorgio il drago

Ibis-Como-Pavia, dic 2008

Con alle spalle una nutrita produzione letteraria da me interamente conosciuta, Umberto Lucarelli ha ora pubblicato un nuovo libro la cui fattura induce a qualificare “tascabile” per i consueti limiti esteriori ma che, ciò nonostante, a fine lettura produce l’impressione di essere reduci da un romanzo ben più corposo e impegnativo di quanto non prometteva l’esteriore. A favorire una sensazione del genere è forse la complicità dei molti pregi, stilistici quanto d’inventiva rivelati dalla narrazione, la coraggiosa introspezione incalzante fino all’epilogo, il sapore finale di una favola classica che instaura la felicità individuale integrata da quella degli altri. More solito devo qui limitarmi a segnalare solo la singolarità e compatibilità dell’escamotage scelto dall’autore per dipanare una storia che poggia sull’arte visiva, quella che nei secoli si è impegnata a rappresentare la leggenda di San Giorgio e il Drago. Ma il dipanare di Lucarelli non concerne la pregnanza estetica dei numerosi dipinti, bensì la responsabilità che tutti i maestri dell’arte figurativa si sono accollati incapaci di cogliere l’essenza del drago, perché il drago non era come loro lo hanno descritto. È dunque da questo apparente paradosso che l’autore inizia a dipanare il proprio lungo, stringente e sofferto discorso fintanto a pacificarlo verrà la tela di uno sconosciuto pittore che niente aveva a che fare con i draghi dipinti da Mantegna, Pollaiolo, Tintoretto,Vitale da Bologna, Uccello, Carpaccio e tanti altri.

Brunello Mannini

 

Novembre 2008

Luglio 2009