Recensioni Giugno 2005

 

Home

 

Recensioni

Elio Andriuoli

 

Il caos e le forme

 

Genesi, Torino, 2004

 

 Il lettore si soffermi sull’immagine della copertina, non prosegua frettolosamente e cerchi poi l’impronta che ne conserva dentro. Si tratta di una ‘Divinità in trono con colomba ad ali spiegate’, si direbbe proprio la “statuetta (che) in sé racchiude lo stupore del mondo”. Così appunta il poeta nel corso di un viaggio toccando Palermo e chiude: “il sole avviva candide pareti ed incantate fantasie dipinge, tra il tutto incerto e il nulla”. A lettura ultimata il lettore avrà avvertito quale importanza rivesta questa visione nel diario poetico di cui Andriuoli lo gratifica. Stupore, incertezza, il nulla sono simboli manifesti, sfiorati o sottesi in ogni sezione poetica: Si tinge così la vita di nuovo stupore (Per segrete vie), Li terrà smemorato un immobile stupore (La bambina di marmo), Ed è ogni giorno lo stesso stupore (Nella rissa dei giorni), Nel cerchio incantato del suo stupore (Ivi), E stupore è la vita (Le parole dipinte), Nel moto del suo eterno divenire / che l’animo mai cessa di stupire (Ut pictura poesis), Sospeso è il giorno dentro il suo stupore (Ivi) Ma oggi al tuo stupore s’apre il mondo (L’isola). Dove la strada termini l’ignori (Per più vedere), Un enigma è al fondo dei tuoi giorni (Per più vedere), Ma l’Enigma è là, fisso (Ut pictura poesis), Enigma è il destino (Il caos e le forme), In balia d’un grilletto, di una mira (Sei poesie Ariostesche), L’avventura che ci lega a un perenne divenire (Ivi), Gioca ai dadi col tempo e con la sorte (Le parole dipinte), Segno non v’è che m’indichi una via (Il caos e le forme). Cadremo insieme nello stesso buio / baratro informe (Ivi), L’universo gioiva, tu morivi (Ultima estate), Della terra ci copre alto il lenzuolo (Ivi), Né più sa perché mai nel tempo visse (Le parole dipinte), Sei giunto là dove più non esiste domani (Con giusto amore), terminata è l’angoscia del futuro (In memoriam). Costretto da necessità di spazio ad una simile, inconsueta legenda nel tentativo di fornire un prologo che ritengo di per sé esortativo alla lettura della raccolta di poesie anziché duplicare dai convincenti scritti di Vico Faggi e Giorgio Barbieri Squarotti, mi piace terminare avanzando l’ipotesi di un nesso fra la posizione di Andriuoli e quella dei poeti ai quali fu appiccicata l’etichetta di Ermetici. Intendo riferirmi ad un culto che gratifichi a livello alto la parola, quindi l’immagine e il pensiero; al frutto maturo di valenza esistenziale nonché all’assenza di chimere neo-realiste e altre militanze. Me ne convince la conchiglia marina di Alceo, antica come la statuetta della copertina, così bene metabolizzata da Salvatore Quasimodo e ritrovata da Andriuoli come “memoria delle età perdute”.

Brunello Mannini.

 

 Non capita sempre di aprire un libro dove inizia, nel caso è accaduto alla raccolta di poesie di Nicola Rampin, un giovane poeta (pittore e fotografo), veneto per nascita e siciliano di adozione vivendo a Pedalino (Ragusa). Così apro alla pagina 14 e leggo una poesia, a dir poco lapidaria, dedicata al Natale. Leggo testualmente: Siamo una massa / di cattiveria /che rimbalza nell’atmosfera. Commento: “Andiamo bene, questo non ha peli sulla lingua, tre righe gli sono bastate a dire ciò che molti pensano e mai oserebbero esternare, neppure in un regime di assoluta democrazia”. Generalmente non leggo le note bibliografiche, il cosiddetto “curriculum” dell’autore solo perché non desidero interferenze. Qui faccio uno strappo alla regola e si apre una cateratta che mi sbatte addosso una furia di recensioni, esposizioni, copertine, premi, traduzioni in lingua, concorsi e quant’altro occorra, per non dire dei tanti nomi a me noti nel tempo e stimati. Indubbiamente Nicola Rampin merita tutto questo, ha la stoffa, i mezzi indispensabili ad emergere. Rimanendo, come usano dire, nella specifica disciplina e in aderenza al testo che qui interessa, l’esecuzione è rapida, tale da imbarazzare i più spediti (e creativi) futuristi: Siamo / delle calde particelle / venute /dal buio; / trasformate / in materia deperibile, / in luce, in visione, / caricature con sentimenti / destinate / e cestinate / nuovamente / nel buio. Tuttavia Rampin non è affatto un neo-futurista, urgono in lui ben altre e differenti motivazioni; se ne offre un paradigma titolato “Domande”: Un uomo / perché dovrebbe / vivere nell’illusione? / E allora perché / dovrebbe rassegnarsi? / Sarebbe ingiusto / spegnere / la speranza! La raccolta poetica si avvalora per addizione, pagina dopo pagina, ogni volta sventando l’assuefazione del lettore, vanificando la di lui aspettativa che la ruota seguiti a girare con identico suono. Rampin vuole tenerlo desto, lo fa con semplicità, leale verso se stesso e chi ascolta: “…Queste parole; / le parole che potete leggere / sono semplici momenti, / semplici fiori, spine del non fiore, / sono la mia vita, / nulla di più! Sono la poesia / della fuga, quella buona, / la fuga delle insoddisfazioni giornaliere, / la fuga dalla vita frettolosa. / Una fuga che non ha scampo! ”. Così avverte agli inizi.

Brunello Mannini

 Nicola Rampin

Omonimo

Poesie 2003

Bastoni, 2004

 

Rita Santuari

Dal buco della chiave

Editrice L’Informazione, 2004

 

 

 Con leggerezza e ironia Rita Santuari, la poetessa trentina della quale siamo abituati a registrare le novità letterarie sempre in bilico fra poesia e narrativa, si ripresenta con la nuova raccolta di racconti “Dal buco della chiave”. Già il titolo si preannuncia intrigante e accoglie dentro di sé una miriade di implicite suggestioni talvolta dichiarate talaltra no, che incitano alla lettura. Così va il mondo. Quanto ci viene appena suggerito, è molto più accattivante di ciò che è dichiaratamente espresso, quindi sbirciare attraverso il buco della chiave le vicende degli altri per coglierne i pettegolezzi, le indiscrezioni, le morbosità sempre però sul filo del giusto rispetto è senz’altro più stimolante, sensazione paragonabile forse alle irripetibili innocenti esperienze dei bambini che rubano la frutta. E allora con un pizzico di curiosità ci accostiamo al suo libro a passi leggeri. Intanto bisogna dire che la leggerezza è la dominante di questa raccolta per la spontaneità delle descrizioni e l’estrema semplicità da cui emerge con chiarezza la tipologia dei personaggi. Caratteristiche queste che, unite alla fluidità del narrare fatto in tono discorsivo senza involuzioni o parafrasi, fanno dell’ars scribendi, in un momento come il nostro estremamente involuto, ricercato e contorto, una festa nel senso pieno della parola aprendo una parentesi giocosa nella squallida compattezza dei giorni. Che si parli allora di domenica leggendo il libro della scrittrice, una domenica gustosa nella quale come antipasto ci viene offerto l’abito rosso sul corpo nudo della sirena oppure con abbondanza di saliva il trasgressivo piacere di Margò “Nell’estate di fuoco”. Perché, se vogliamo, la Santuari in maniera peraltro educata senza eccessive concessioni all’eros, fa un’ottima cucina di piatti carichi di pementa e di tutti quegli ingredienti che stimolano la fantasia. Anche erotica, se vogliamo, ma sempre prudentemente frenata da un innato buon gusto. E la Santuari con uno schiaffo all’avarizia fa grande uso di ingredienti: sesso, amore, tenerezza, pietà, rammarico, nostalgia, e ci fa gustare tutto quanto con l’estrema levità e ironia che ne sottolineano il carattere. Perché Rita è così: contagiosa di allegria, stimolante di sensazioni, ricca di idee. Un po’ di questo, un po’ di quello e i suoi racconti le somigliano, e ne siglano la personalità. Trasgressiva quel tanto che basta, complessa e contradditoria ci permette di guardare attraverso il buco della chiave: storie sue o no, questo a noi non riguarda affatto. I meccanismi dell’animo umano sono complessi e complicati, l’importante che una lettura stimoli la curiosità, solletichi la fantasia, produca quella certa sensazione che somiglia al piacere di cui l’impronta rimane impressa in qualche angolo della memoria. Tuttavia anche usando ingredienti pepati e saporiti, buon gusto e misura non vengono mai meno, regolano la narrazione e innervano il suo pensiero. Così, in questa festa della domenica, i suoi personaggi prendono corpo, si vestono degli abiti migliori ed escono per una passeggiata in piazza dopo avere gustato il pepe di piatti speciali. Verismo: “Chiodo schiaccia chiodo”, neorealismo: “Un briciolo di storia”, surrealismo e favola: “La zingara predisse”, lirismo: “Odore di mare”, erotismo: “Ben Hur”, e quant’altro la cucina della domenica sia in grado di offrire.

Giuliana Matthieu

 

 Questo libro si legge tutto d’un fiato perché è un’allegoria di ciò che potrebbe veramente succedere. Perché è ambientato tra il VI e VII millennio? Si tratta d’un vero e proprio « escamotage» dell’autrice, nota e rinomata di cui non starò ad elencare le opere anche filmiche. Mi pare che, leggendo tutto il libro, si debba uscire da un equivoco: l’autrice non nega il progresso ma lo sviluppo disordinato, lo scientismo assoluto. La visione scientista fa perdere la dimensione globale dell’uomo: lo spezzetta, lo annichilisce,lo annienta. Tale il messaggio forte. Annienta i suoi valori, le sue radici più vere ed autentiche, lo rende, come disse Gottfried Benn” un uomo nevrotico, allucinato…” Ricordate la morte cruenta della giornalista del TG3 Ilaria Alpi e del suo cameraman per avere “indagato troppo” sui rifiuti tossici riciclati in Somalia? O del cromo e il cloro esavalenti in Usa e anche nel Veneto che sono teratogeni e cancerogeni? Delle ecomafie? (E qui la Marcone è in prima linea contro la mafia in genere per un’esperienza personale da lei vissuta che le ha cambiato la vita,vedi Storia di Franco) e via dicendo. Qui la filosofia del grande Bacone a favore della scienza con il suo ottimismo rinascimentale è stata tradita dall’eccessivo tecnologismo già prospettato in epoca moderna dal filosofo Auguste Comte e dagli sviluppi anglo-americani della sua filosofia, non storicizzata abbastanza ma presa un po’ troppo pragmaticamente con lo sviluppo scientifico che ha con sé l’applicazione tecnologica sino all’estremo. Quest’ultima spezza i valori dell’uomo stesso, lo fa diventare un nulla, lo subordina ad oggetto (cfr, il mio Compendium, Storia della Filosofia, vol. III, Roma-Palermo, 2000), per cui il potere è sempre impersonale (vedi come sia nocivo in una società da Orwell come la Cina post-maoista dove si consumano crimini in nome della produzione scientifico-industriale, società chiusa, o negli USA, società aperta per usare le categorie di un noto filosofo austriaco da poco deceduto,che usò tale categorie da noi corsivate, K.R. Popper). Il Potere è dunque impersonale, rende numeri le persone come le cose, sia che il Potere viga in Italia o nello Zimbawe. Il romanzo della Marcone, più che ad Orwell, si richiama a quel grande autore che fu Ray Bradbury noto sovrattutto per Fahrenheit 451(il grado F.451 è il punto critico ove la carta – la libertas philosophandi di spinoziana memoria – inizia a bruciare). Molte analogie con la Marcone e il libro succitato di R. Bradbury pur delle ovvie differenze: la Marcone assiste davvero ad una globalizzazione disumana in atto, allo sconcerto dell’uomo perduto, senza orientamento, alla distruzione delle proprie radici mentre Farheneit 451 è del 1953. Ma entrambi gli Autori combattono per una società a favore dell’uomo, per il suo futuro, come sembra dica apertamente l’autrice. Senza un dopo, un avvenire che è l’uomo? Dopo l’apocalissi c’è in E venne il settimo giorno una speranza velata: Habel. Habel o Abele rimanda, secondo il mio parere, ad una nota autobiografica della Marcone stessa: la sua associazione “difendiamo Abele”, gli innocenti… Ottimo il disegno di copertina di Cristiana Ricci: www.cristianaricci.net, che riassume l’angoscia e la via salvifica dell’uomo qui descritto in un’epoca davvero sconcertante.

Enrico Marco Cipollini

Maria Marcone

E venne il settimo giorno

Nardò, Lecce, 2005

 

 

 

Marzo 2005

Settembre 2005