Recensioni Settembre 2004

 

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Recensioni

Anchise Picchi

tra Simbolismo e Novecento

suggestioni di nebbie

e aspirazione di luce

a cura di

Francesca Cagianelli

Bandecchi & Vivaldi, Pontedera

giugno 2004

 

 

 

 Anchise Picchi è un artista nella più ampia accezione del termine che, dopo aver percorso tutto il '900, ha intrapreso con giovanile entusiasmo il cammino nel nuovo millennio. Gli anni non hanno minimamente scalfito la sua mente lucida ed il suo intelletto, pronto ancora a recepire le novità che incalzano nell'arte e nella vita e, soprattutto, il suo senso critico, la capacità di riflettere sulle vicende umane e di trasmettere a chi ha la fortuna di sedersi accanto a lui, le sue considerazioni sull'arte, sulla letteratura, sulla società. Anchise Picchi è ancora oggi, per chi lo ascolta, quel professore che ha educato al senso dell'Arte e del Bello gli studenti dell'Istituto di Cultura Italiana all'Estero di Salonicco e del Collegio Salesiano di Collesalvetti, dicendo frasi come queste: "Il mondo creato dall'arte è più bello del reale perché è ideale", oppure: "Fermate nel marmo o sulla tela l'attimo fuggente e avrete una creatura che vivrà in eterno". E poiché il senso artistico si esplicita attraverso varie forme, Anchise sa essere anche poeta, filosofo, letterato. Ci sono pagine e pagine di quaderni di riflessioni e di appunti ed è facilmente immaginabile quale possa essere stato l'entusiasmo suscitato nei giovani studenti, se ancora oggi suscita entusiasmo in quelli che studenti, ahimè, non sono più. Mi è capitato di sedermi, d'inverno, accanto a lui davanti al camino acceso e di ascoltarlo parlare dei Grandi della nostra storia dell'arte, o dei filosofi, o dei poeti, o dei classici latini e greci, in un fluire di riflessioni e di pensieri ricchi di argomentazioni e modernissimi. Ascoltandolo viene spontaneo di dire di lui: è più pittore o poeta? È più scultore o filosofo? È un nonagenario o un ventenne? Non si può dire che sia più l'uno o l'altro: è un uomo che racchiude in sé il senso più profondo dell'Arte "che è equilibrio, che è armonia, che è ordine, che è vita". E quando dice questo fa degli esempi concreti: "La figura del Cristo giudicatore del Giudizio Universale ha un braccio alzato nell'atto di maledire i reprobi. L'altro è in posizione antagonista per fare equilibrio al corpo, e questa è una creatura che vive, perché opera secondo natura, cioè ha in sé equilibrio e armonia" Il bel libro "Anchise Picchi: tra Simbolismo e Novecento ­ suggestioni di nebbie e aspirazione di luce", curato da una eccellente critica d'arte quale è Francesca Cagianelli, ci invita a rendere onore al merito di questo pittore che ancora, nella sua casa a Collesalvetti, aperta agli amici e agli ospiti, si diletta a dipingere, anche con il computer, e ci diletta con le sue riflessioni su Leopardi, Manzoni, Michelangelo, in un linguaggio chiaro e forbito con una bella voce sonora.

Nicla Spinella Capua

 

 

 Poeta tra i maggiori della nostra letteratura, Torquato Tasso fu ammirato nei secoli da uomini di grande talento, come Leopardi, che pianse sulla sua tomba, e da Goethe, che a lui dedicò un dramma che porta il suo nome. Liana De Luca se ne è occupata recentemente in un volumetto, intitolato appunto Tasso, facente parte di una serie di saggi che questa nota poetessa e narratrice va pubblicando presso la Genesi di Torino. Il libro si suddivide in vari capitoli: La Gerusalemme Liberata; Romanzo di Silvia; Rime; Madrigali; Vita. Nel primo capitolo la De Luca parla della concezione che il Tasso ebbe dell'epica (concezione per la quale nel poema, "accanto alla storia, liberamente rimaneggiata, deve esserci. .. il meraviglioso") e dello stile che le è proprio (si richiede sia "alto, letterario e musicale, arditamente traslato, alieno dal gretto fiorentinismo"). Dopo aver fatto cenno ai vari problemi che riguardano la Gerusalemme, nonché in particolare a quelli della sua trama, "costruita su chiaroscuri drammatici" e su di una "unità spirituale che deve essere continuamente ricomposta dall'autore", la De Luca passa a tratteggiare nel secondo capitolo la figura di Clorinda, guerriera pagana molto simile alla virgiliana Camilla, di cui Tancredi si innamora a prima vista. La vicenda, con gli opportuni rilievi stilistici e critici, viene ricostruita sino al duello conclusivo fra Clorinda e Tancredi, al termine del quale Clorinda muore. Il capitolo terzo ha per oggetto l'Aminta, dramma pastorale composto da Torquato Tasso nel 1573, del quale la De Luca mette particolarmente in evidenza il personaggio di Silvia, che dapprima duramente respinge l'innamorato Aminta, ma che poi, alla falsa notizia della sua morte, si commuove e sente "la passione nascere e svilupparsi nel suo animo". I capitoli quarto e quinto di questo libro riguardano, come s'è detto, le Rime e i Madrigali. Sul valore delle Rime, sulle loro ascendenze e sul loro significato nel contesto generale dell'opera del Tasso si sofferma l'autrice, evidenziando che il "Tasso non intendeva dare al suo canzoniere una struttura diaristica, né farne una autobiografia spirituale", "ma voleva bensì verseggiare su amori privi di un centro ispiratore in una creatura identificabile". Di particolare interesse sono i commenti ai sonetti 18, 49, 380, 592. Per quanto riguarda i Madrigali la De Luca ne rileva la "raffinatezza metrica", espressione di una "poesia colta destinata alla musica" e di "un genere recitativo a più voci con accompagnamento di organo, o lira, o cetra, o viola, o arpa". Strutturato in brevi strofe di endecasillabi e settenari, era per lo più di argomento amoroso e "si prestava allo scherzo malizioso e galante". Molti ne scrisse il Tasso, alcuni dei quali furono musicati da Luca Marenzio, Carlo Gesualdo e Claudio Monteverdi. Anche di essi la De Luca fa un'ampia scelta, con un appropriato commento. Da ultimo la Vita, che viene delineata nelle sue principali vicende e dalla quale scaturisce netta la figura di un uomo di eccezione, dall'esasperata sensibilità e per questo infelice; ma anche quella di un poeta veramente grande, che ha lasciato un segno indelebile nella nostra letteratura e che compiutamente esprime il travaglio e i contrasti dell'età che fu sua.

Elio Andriuoli

 

 Liana De Luca

Tasso

Check-in

Genesi Editrice

Torino 2003

 

 

 

 

 Alessio Zanelli

33 poesie

Starrylink

Brescia 2004

 

 

 

 Ignoro vi siano precedenti, comunque un italiano che scrive versi in inglese per poi tradurli nella madre lingua non viene alla ribalta tutti i giorni. Senza dubbio oggi non difettano fasce di giovani italiani in ottima confidenza con la lingua l'inglese, ma prendere allo stesso tempo la musa per mano è altra faccenda. Zanelli poi è due poeti in uno, impossibilitato come traduttore di se stesso a scollare le facce aderenti dei significanti espressi in lingue che neppure si somigliano, realizzando l'identicità dei significati. E se anche volessimo restare nella pura vocalità, facciamoci leggere da un esperto versi originali e versione dei medesimi in alternanza, che scopriremo non è la lingua a fare musica ma il compositore. Niente sappiamo dei percorsi che hanno preposto una balia inglese ad allattare il nostro poeta e quando amassimo il pistolotto demagogico diremmo: "Avete visto, all'unità degli europei ora concorre anche la poesia". Meglio aspettare ancora un poco a dirlo, magari il giorno che la sterlina avrà passato la stecca all'euro. Intanto, poiché il poeta torna fra noi come il figlio prodigo, gli diciamo "benvenuto" e in suo onore immoliamo l'agnello più grasso. Zanelli è un poeta che calza bene il presente, non fugge in avanti né rimpiange il passato, quando occorre sublima un discorso attuale in termini epici (Agli imbelli), usa la vena favolista per argomentare su temi universali (Natura e mente), aggiunge un epitaffio a Spoon River (Epitaffio di bandito), corregge pacatamente un comune piagnisteo (Vita da cani), anima d'umano scenari cosmici (Le foglie cadono e la rondine parte), si reincarna in un John Donne di quattro secoli dopo (Campane). Proseguirebbero le citazioni perché, come osserva Mayer, niente va sprecato del libro, ma oltre non si può. Tuttavia piace aggiungere che Zanelli, poeta "vivo" che penetra oltre l'epidermide del lettore, merita un posto nel gota dei giovani autori italiani e che se ne avvertiva il bisogno di uno come lui, disinteressato a "risciacquare i panni in Arno". È in altre acque andato a bagnare i panni, Zanelli, quelle per lui più salutari forse del Tamigi e dell'Abasch, liberandosi da stantii quanto abusati problemucci del come spargere versi per la pagina piuttosto di sondare quanto questi scansino Narciso per più arricchire chi legge.

Brunello Mannini

 

 

 In una lettera al Bononi, scritta dall'autore e riportata nel suo prezioso libro La vita che dà barlumi, Gallo & Calzati Editori, Emerico Giachery così auspicava: " e che ci sia spazio, meditazione, respiro, lontananze, impeti e tenerezze di stagioni, dialogo, monologo, musica, malinconia, sede della parola autentica, nostalgia di durata, brama metafisica che dà ala a sogno d'ala, al guazzabuglio umano e una tregua dei frastuoni". Emerico Giachery, nel suo volumetto, dona al lettore tutto questo, sia che si soffermi a parlare del poeta Caramella, creatore in Firenze della Fondazione "Il Fiore", sia che evochi i suoi "paesi dell'anima", artistici plastici o pittorici, storie di angeli "tra vecchi libri e ricordi" e il grande cinema. La musica che sottintende a ogni parola è pur sempre grande musica. Scrive Giachery: "se dovessi condensare in un motto il mio quasi cinquantennale lavoro di interprete di testi poetici, il succo di una vita nutrita di incontri con capolavori letterari, musicali, figurativi, filmici, con tante avvincenti epifanie di città storiche e di paesaggi, sceglierei questo verso di Leonardo Sinisgalli Conosco il bene di tanta bellezza". Nell'attuale momento storico, libri come questi sono essenziali ad irrorare deserti, a colmare baratri incombenti sull'orrore. La narrazione procede sommessa, quasi in punta di piedi, anzi à pas de deux, per citare un'altra opera di questo insigne letterato, poiché l'amore-condivisione per la consorte Noemi, vi traspare nella levità di un affetto cosmico. Emerico Giachery oltre ad avere insegnato letteratura in Università italiane e straniere e pubblicato una ventina di libri di grandi autori italiani tra '800 e '900, ha stilato un interessante saggio sull'interpretazione dei sogni e un volume sugli incontri letterari della sua vita: Letteratura come amicizia ­ Bulzoni Editore, Roma 1996.

Massimiliana De Vecchi

 

Emerico Giachery

La vita

che dà barlumi

Gallo & Calzati

Editori

 

 

 

 

Giuliano Belloni

L'olio nell'insalata

Ibiskos Editrice

 Il titolo del libro di narrativa di Giuliano Belloni L'olio nell'insalata è abbastanza insolito, ma sottende molto e la dice lunga sulla sua indole, natura e desiderata. L'autore affronta il difficile momento del risveglio in una qualunque casa della Roma di periferia in cui, come succede a molti se non a tutti, si affronta, sia pure a livello inconscio, il mito del ricordo. Allora il deja vecu si appresta a tornare alla mente e inizia il faticoso processo all'indietro, pesante excursus nel mondo del nostro passato. E mentre per i soppravvissuti schizzati dall'alba ­ come dice l'autore ­inizia il rito del sapone, del bagno, dello strofinamento del proprio corpo quasi a volerlo nettare di una colpa pregressa mai scontata, il flusso dei ricordi si fa spazio fra i gas di scarico di anidride carbonica e s'impossessa della mente fino a dominarla. E voilà, chiara al palcoscenico della memoria dell'autore, la visione della casa paterna. Ma che fine ha fatto si domanda in preda all'ansia di recuperarne almeno qualche brandello? Un camerone ­ racconta ­ dove tutto vi entrava pecore, galline di solenne solo un'immaginetta della Madonna Il progresso che commedia ­commenta l'autore ­ e in questa frase quasi un credo religioso. Di qui il suo nascosto desiderio di guardare indietro e rimpossessarsi almeno virtualmente di quel mondo contadino di cui lui, figlio di generazioni di braccianti, si sente ancora parte: Una generazione si riconosceva dalla muffa e dall'alito dell'aratura impresso nella canottiera e solo quando l'unto sfondava il cuscino l'orgoglio contadino, soltanto allora era all'altezza del divino: riti, usanze, piccole miserie di una civiltà contadina sommersa, ma tuttavia ancora presente almeno nel suo ricordo. Momenti di vita semplice: un tempo la gente s'adunava intorno alla farina delle corolle, nell'aia si riconosceva dopo una giornata di lavoro la teologia rurale (). E la sacralità della natura dove le anatre come i farisei dell'antico testamento continuano a sorvegliare il cortile e le mosche vivono lo spazio come una scatola chiusa, si siedono sul pavimento e giocano a dama (), evince dal suo periodare scarno, asciutto, che non cincischia i caratteri, ma si distende con pennellate eloquenti a rappresentare il mirabile senso della vita. E intanto la sua epoca di cui ricorda l'odore del sugo bollito e di olio nell'insalata in primavera () si allontana in punta di piedi dallo scenario convulso e tecnologico dei nostri giorni portandosi via le filastrocche della mamma, i mattoni graffiati con le crepe dell'inverno, l'armadio dei pochi vestiti in cui cambiare gli anni, il trumeau d'abete che ha perso i pomelli, il tempo della vendemmia. Addio campagna dice l'autore con una malinconia dolce. Ho chiuso a chiave intere giornate dentro la mia stanza. E i singulti di un'epoca di cui, per indifferenza o semplicemente per fretta, abbiamo quasi dimenticato l'esistenza si spengono fra sogno e consapevolezza nella fretta dei giorni.

Giuliana Matthieu

 

 

 "La festa dei fichi" è un romanzo storico, un romanzo introspettivo, un romanzo d'amore; è la sapiente sintesi di tutto questo, confezionato con garbo e perizia: una piacevole lettura che fa riflettere. Alla maniera dei grandi enciclopedisti francesi del '700, Gennaro Guaccio fa dialogare due interlocutori privilegiati e il loro scambio di opinioni diventa dialogo fra grandi religioni monoteiste, un dialogo quanto mai attuale e necessario. Questa è perfetta letizia. Se tutti ci sopportassimo con piacere, gli uni con gli altri, vivremmo lieti sulla faccia della terra. La ricetta della perfetta letizia è la più semplice, ma, proprio per questo, la più difficile da attuare: il sopportarsi con piacere travalica l'aspetto tipicamente umano, diventa divino. La festa dei fichi può concretamente diventare importante momento di interscambio, vero e proprio atto di assaporare il diverso, integrazione perfetta: attraverso la simbologia del fico, frutto tipicamente mediterraneo, che accomuna culture e religioni lontane. dovunque ci sono donne che portano cesti colmi di fichi. Tende a righe e tende di sacchi proteggono dal sole lunghe tavole che recano ceste e cestini con fichi e paste di vario genere. () La festa, il cibo ci presentano un mondo arabo dall'angolazione conviviale, un'atmosfera di distensione, lontana dall'intransigenza e l'integralismo cui siamo abituati. La povertà, la semplicità sono la via della salvezza, è il cammino intrapreso da Francesco che è l'anima più semplice che io abbia mai visto tra gli uomini e questo lo rende accetto al cielo. I valori cristiani diventano, qui, valori umani per eccellenza: un'umanità al di sopra di ogni religione e filosofia. Discutendo di concetti più vasti e profondi della mente dell'uomo, il passaggio dal particolare all'universale e, poi, di nuovo alla situazione specifica è immediato: Viene da pensare dinanzi alla estensione spaziale tra terra e mare che rimanda a quella temporale tra secolo e millennio. C'è da rifluire nella memoria della stravagante coscienza della storia, come in quella personale di ognuno, come verso il principio di se stessi (). Termina così il suo romanzo Gennaro Guaccio; il filo conduttore qui indicato non è che una delle chiavi di lettura individuabili nel libro, forse la più complessa e articolata che completa e integra le parole d'amore e i fotogrammi di cronaca.

Silvia Frigenti

 

Gennaro Guaccio

La festa dei fichi

Rolando Editore

 

 Giugno 2004

Dicembre 2004